martedì 22 novembre 2022

La luna e i falò - Cesare Pavese












Una lunga poesia, una congiunzione magica e ispirata tra stile e contenuto, un memoriale di cose vecchie e nuove, di cose che non smettono di ritornare e di quelle che non smettono di andare via. La luna e i falò è l'antica favola dell'uomo che torna a casa e la trova uguale eppure irrimediabilmente diversa, una favola che tutti ci siamo sentiti raccontare almeno una volta, e in cui qualcuno potrà anche riconoscersi. Si può capire come questa favola, come questa liturgia del ritorno, possa essere quindi fortemente permeata di nostalgia e di malinconia, nonostante il racconto del protagonista rimanga sempre molto lucido e composto. Intuiamo che lui come tanti se n'è dovuto andare, ma che a un certo punto è dovuto anche tornare. Comincia un viaggio che non è solo quello mesto e nostalgico dell'andare tra i ricordi, ma anche quello imprevisto e novizio dell'andare tra le cose nuove, o meglio tra le cose che si sono sempre conosciute ma che non si sono mai viste in una veste nuova, quella in cui appaiono ora agli occhi del protagonista. 

Quello di Anguilla è un viaggio che ha la connotazione di un viaggio rituale e magico, una sorta di re iniziazione alle cose, narrata in una lingua densamente simbolica, ma è anche, allo stesso tempo, un viaggio desolante, in qualche modo triste, un cammino che scardina e reincardina l’uomo continuamente, da ciò che è sempre stato a ciò che vorrebbe essere, da ciò che non è mai stato a ciò che non sarà mai. Si comprende la portata di questo processo di revisionamento e rinnovamento, tutta condensata nell’immagine del falò, il fuoco che tutto distrugge ma che allo stesso tempo rende la terra più fertile, feconda, sottendendo all’ineludibilità e al potere del cambiamento. Tutto muta eppure la matrice delle cose permane apparentemente immutata. La Terra non muta, così come le sue stagioni, rimane immota nel suo essere foriera di nuova vita. 


Il ritorno del protagonista non segna del resto la chiusura di un cerchio, non è una risoluzione ma l'ulteriore definizione di una crisi che ha luogo da tempo immemorabile nel cuore dell'uomo, una crisi alla quale non sembra esservi una soluzione immediata. È più saggio l’uomo che se ne va, o quello che resta? È più eroico l’uomo che persegue l’individualistico sogno della realizzazione personale o colui che rimane a combattere per difendere i valori della collettività a cui sente di appartenere? Anguilla e la sua guida si contrappongono in un gioco senza vincitori. Sono entrambi sullo stesso piano, Anguilla ha perso perché se n’è andato e Nuto perché è rimasto. Anguilla vince per il suo pragmatismo, per il suo approccio utilitaristico della vita, e Nuto per la meraviglia del suo sguardo, per l’incanto con cui non rinunciamo di guardare alle cose del mondo. Per Anguilla è impensabile ogni simbolismo, se non quello del raccontare, per Nuto è impossibile invece, non credere nei simboli, perché sono la forma più vicina e tangibile di qualcosa che è percepito come disperatamente irraggiungibile . Egli ha ancora fede nella luna e i falò, nel mito, nel magico, e non perché sia stupido ma perché sarebbe impensabile altrimenti. Conosce il potere del fuoco e crede in quello della luna, che quasi beffarda, galleggia sui destini degli uomini e li condiziona inevitabilmente. Non è un caso che da sempre le vicende umane e terrestri siano legate alle fasi lunari. Siamo liberi di crederci o meno ma quello contro cui siamo impotenti è l’immanenza di queste immagini, la tenacia con cui persistono nella cultura popolare e ne alimentano il simbolismo e di conseguenza anche la poesia. Immagini che ci vengono restituite da Pavese in una lingua commovente, incantevole, un linguaggio che da un lato si congiunge con la durezza della terra, che si scarnifica come si spoglia la terra d’inverno e dall’altro si eleva e si tinge di un profondo lirismo, di immagini dolci e indimenticabili.