sabato 29 giugno 2024

il Maestro e Margherita - Michail Bulgakov

In un caldo pomeriggio primaverile, agli stagni Patraršie a Mosca, il poeta Ivan Nikolaevič Ponyrëv, detto Bezdominyj e il direttore di un giornale nonchè presidente di una delle associazioni letterarie più importanti di Mosca, Michail Aleksandrovič Berlioz discutono dell'esistenza di Gesù Cristo. Il secondo deve scrivere, per conto del primo, un poema antireligioso che dimostri che Gesù non è mai esistito. Improvvisamente compare davanti a loro il diavolo, nei panni di un individuo ambiguo e misterioso che dice di essere uno straniero e che intromettendosi nella conversazione asserisce che Gesù è esistito eccome, che Dio esiste e che sussistono ben sette prove della sua esistenza. I due scettici non gli credono e iniziano a pensare di avere a che fare con un pazzo. L'ambiguo straniero incalza e a riprova della sua tesi, inizia a descrivere nefasti presagi che attendono il direttore del giornale, il quale preso dal panico, tenta una fuga improvvisa, correndo verso i binari della stazione e non accorgendosi che è in arrivo un tram, ne viene travolto, finendo con la testa mozzata, esattamente come predetto poco prima dal diavolo. Il poeta Bezdomnyj che ha assistito a tutta la scena, sconvolto, prova a inseguire il losco individuo, senza riuscirci. Così si precipita al circolo letterario per avvisare gli altri letterati dell'associazione letteraria MASSOLIT e per convincerli che il responsabile altri non è che il diavolo in persona. Ovviamente nessuno gli crede, anzi pensano che sia impazzito e lo fanno internare in un ospedale psichiatrico. 

Nel frattempo il diavolo si aggira per Mosca, insieme alla sua cricca composta da Behemoth  (un gatto parlante grassoccio e dai modi buffoneschi), Azazello,  (un tizio losco dai capelli rossi, un occhio con un leucoma e una zanna che spunta asimmetricamente da un angolo della bocca)Koro’evev,  uno strano individuo alto e magro, con gli occhialetti e una camicia a quadretti e infine una strega di nome Hella, semina disordine e caos. Il piano è quello di indire una serie di spettacoli allo scopo di irretire i moscoviti, dimostrare la loro dissolutezza e spazzare via anche l'ultima briciola di moralità. 

Da questo primo rocambolesco quadro, si prefigura quel che è un romanzo molto complicato, grottescamente comico, più di tutto surreale, ma che oltre il velo del surrealismo espone un’attenta e aspra critica della società moscovita sotto il regime comunista, una invettiva impietosa che sventra il corpo sociale e lo analizza minuziosamente in tutti suoi organi, culturale, politico, religioso.  È una critica all’ateismo imposto dal regime e corroborato da un intellettualismo esasperato; è una critica all’anticristianesimo, alla mancanza di fede e al rifiuto dell’esistenza di Dio, una critica a una società ormai deragliata, sempre più corrotta e corruttibile, sempre più lontana dalla verità e per questo più suscettibile alla fascinazione del male, che invece è mistificazione della realtà, mascheramento, illusionismo. 

Si tratta di un caso di ipnosi collettiva, vien detto spesso nel romanzo, per spiegare il soggiogamento dei moscoviti agli scherzi del mago Woland, come si fa chiamare il diavolo. Un incantesimo che può avvenire perché vi è un terreno fertilissimo, gli individui sono privi di moralità, privi di valori che consentano loro di accorgersi del gigantesco raggiro di cui stanno per essere vittime. Essi sono ciechi di fronte alla verità, perché l’unica logica che comprendono è quella del denaro e del potere. Emblematico che durante il primo spettacolo del diavolo al teatro Varietà, in uno stato di esaltazione tutti gli spettatori si affannino ad afferrare banconote volanti, creme di bellezza e vestiti lussuosi. Ma non è che la prima di tante illusioni: le banconote infatti si trasformano presto in etichette di bottiglie, i vestiti scompaiono lasciando nudi chi li aveva indossati. Ecco che tutto ciò che apparentemente luccica e ha valore, non tarda a rivelare la propria falsità, nonché la propria inutilità. 

Le uniche forze che possono trascendere il male, sono la Fede e l’amore. Non solo trascenderlo ma anche scalfirlo e farlo vacillare. Sono proprio questi difatti i grandi temi del romanzo, la fede, l’amore, e la verità che da essi solo deriva. 
Le bizzarre vicende messe in atto in questo teatro così infernalmente orchestrato, si intrecciano con la storia d’amore del maestro e Margherita. Sì perché questo romanzo è anche un grande romanzo d’amore. Questi due personaggi sembrano non essere interessati alle cose materiali. Ciò che desiderano davvero è infatti immateriale e intangibile. È il loro amore a renderli immuni alla mistificazione della realtà, a consentirgli di distaccarsi da una società che non sono più capaci di comprendere e in cui non sono più in grado di identificarsi, di innalzarsi al di sopra della città e volare in una dimensione quasi onirica. Come in un quadro di Chagall, i due amanti alla fine del libro, possono finalmente librarsi in volo, lontano da chi non li ha compresi né voluti. È un amore bello perché è anche uno di quegli amori tristi. Il maestro è infatti impazzito dopo che il suo romanzo su Ponzio Pilato è stato aspramente criticato dai più importanti critici letterari di Mosca. Il dolore di non esser stato compreso lo porta presto a perdere cognizione di se stesso e infine a lasciare Margherita per autoconsegnarsi a un istituto psichiatrico. Nonostante lui dia prova di star perdendo il senno, lei tenta di tutto per consolarlo, per recuperarlo dal suo dolore, invano. Sarà proprio il diavolo paradossalmente a farli riunire e a ricostituire come intatto il romanzo su Ponzio Pilato che il Maestro aveva bruciato in un impeto di rabbia, chiedendogli di finirlo. L'intento del diavolo, scopriamo, è quello di ricucire le perdute speranze del Maestro circa il proprio romanzo, in modo che egli lo porti a compimento e possa scrivere un'ultima frase, un ultimo atto di liberazione e liberare così Ponzio Pilato dalla colpa che lo affligge eternamente, quella di non aver salvato Gesù dalla sua condanna, pur avendone compreso la natura divina. Il Maestro, insieme a Margherita, viene così condotto da Woland al cospetto di una scranna, in una remota cima petrosa, dove immobile e in preda alla sua colpa inespiabile, siede Ponzio Pilato, il quale è tormentato dalla visione di una strada illuminata dalla luna, dove sogna di incamminarsi e ascoltare le ultime parole di Hanozri (Gesù), quelle che era in procinto di pronunciare prima della sua morte e che non ha mai, però, proferito. Il Maestro così grida al quinto procuratore della Giudea che finalmente è libero, così come liberi di incamminarsi verso il loro nuovo destino lo sono anche il Maestro e Margherita, anch'essi ormai liberi dai loro tormenti. 

Il diavolo si configura qui, in modo del tutto paradossale, come un operatore del bene. Difende l'esistenza di Cristo, smaschera la malizia dei moscoviti, recupera manoscritti distrutti, ricongiunge amanti separati, libera gli animi dai tormenti, concede, su richiesta di Jeshua, il perdono a Pilato. Questi non appartiene infatti al diavolo, ma a Gesù. Come anima pentita e tormentata dal suo peccato, anelante al perdono, non è di nessuna utilità alle diavolerie di Woland. Il diavolo di Bulgakov sguazza nella scelleratezza degli uomini ma non può nulla contro la superiorità del bene e lo ammette placidamente, nella consapevolezza che il destino del mondo è un destino che anela al bene.

- Si ripete la storia di Frida? - disse Woland - Ma, Margherita, qui non devi inquietarti. Tutto sarà giusto, su questo è costruito il mondo. 


sabato 10 dicembre 2022

La macchia umana - Philip Roth

Primo romanzo che leggo di questo autore. Posso dire con certezza che mi sia piaciuto, ma, sì c'è un ma, non ne sono rimasta folgorata come avrei creduto. È sicuramente un gran bel romanzo, che fa quello che dovrebbero fare tutti i gran bei romanzi, ovvero iniziarci alla verità delle cose, alla verità su noi stessi. Leggere questo romanzo potrebbe configurarsi innanzitutto come un'operazione di autoconsapevolezza.  L'uomo che prende atto del suo essere umano e di tutte le cose che possono, nel bene e nel male, derivare da questo semplice principio fondamentale. Roth ci presenta un novero di esperienze e figure umane, tutte accartocciate e contrite nelle loro contraddizioni e per le quali, noi che leggiamo, possiamo provare ambivalenti sensi di disgusto e pena, un po' riconoscendoci in esse, un po' prendendone le distanze ma senza poter sfuggire in fondo al messaggio provocatorio di fondo, e cioè  che vi sia solo un ineludibile destino per noi creature umane, col nostro animo criptico e fazioso, che ci condanna alla reiterazione dei nostri istinti più biechi, quasi come se fosse impossibile "smacchiarsi" dal peccato, dalla colpa, in qualsiasi forma essa ci venga somministrata alla nascita. 
"...noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia. lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c'è altro mezzo per essere qui. Nulla a che fare con la disobbedienza. Nulla a che fare con la grazia o la salvezza o la redenzione. È in ognuno di noi. Insita. Inerente. Qualificante. La macchia che esiste prima del suo segno. Che esiste senza il segno. La macchia così intrinseca che non richiede un segno. La macchia che precede la disobbedienza, che comprende la disobbedienza e frustra ogni spiegazione e ogni comprensione. Ecco perché ogni purificazione è uno scherzo. Uno scherzo crudele, se è per questo. La fantasia della purezza è terrificante. È folle. Cos'è questa brama di purificazione, se non l'aggiunta di nuove impurità? Della macchia Faunia diceva soltanto che era inevitabile. Questo, ovviamente, era il suo punto di vista: siamo creature irrimediabilmente macchiate."
La vicenda raccontata è quasi surreale, a tratti paradossale, tanto che ci si ritrova a chiedersi se davvero sia possibile quello che si sta leggendo, se l'autore non ci stia quasi prendendo in giro. Sembra di leggere una versione americana de Il processo di Kafka. L'ambiguità del reale e delle interpretazioni che ne possono essere date, soprattutto se si considera la complessità della mente umana, riecheggiano fortemente i temi kafkiani e ritrovano in questo romanzo, una riscrittura più moderna, americanizzata e disambiguata dai significati enigmatici. 
Coleman Silk, il protagonista de La macchia umana, viene infatti, in maniera del tutto improvvisa, accusato di razzismo per aver poco furbescamente usato il termine spooks (che può voler dire fantasmi ma è anche usato in termini dispregiativi verso i neri) per riferirsi a due studenti che avevano mancato di presentarsi ad alcune sue lezioni, senza sapere che i due studenti in questione fossero neri. Difficile credere che un insegnante di lettere di tal calibro, colto e intelligente si sia potuto abbandonare a una tale disattenzione, da cui il senso di assurdità che permea l'intero romanzo.
Da questo momento ha inizio l'inesorabile e rocambolesco declino di questo personaggio e del prestigio tanto faticosamente guadagnato. 
Questo romanzo è la destrutturazione di un mito, non soltanto quello americano ma anche quello tutto personale del protagonista, è lo scostamento del velo che cela i segreti e le meschinità che si sono voluti a tutti i costi tenere nascosti. Una finzione che ci viene svelata in tutta la sua interezza soltanto alla fine del libro e che non manca di generare un enorme stupore, poiché essenzialmente assurda. La macchia umana è anche il disvelamento di un segreto. Ciò che ci tiene incollati alle pagine è l’intuizione che ci sia qualcos’altro che non ci è stato detto del protagonista e che vogliamo a tutti costi sapere. 
Scopriamo infatti che Coleman Silk è figlio di neri, quindi di origini nere, ma con la pelle chiara. Questo dettaglio  gli permetterà di smarcarsi dalla sua famiglia e da un destino già scritto. Egli infatti si distacca ben presto dai suoi parenti, li ripudia egoisticamente e senza troppi sensi di colpa, pur di farsi strada e guadagnare un posto d’onore in una società ancora fortemente razzista. E Coleman Silk non soltanto conquista una posizione ragguardevole ma imperversa dall’alto del potere ottenuto, dettando legge e comandando tutti a bacchetta. Fino alla fatale disattenzione.  
Le cui conseguenze sono devastanti per il protagonista. La moglie infatti muore poco dopo, i figli si distaccano ancora di più da un padre non amato e il protagonista, completamente in balia degli eventi, peggiora ulteriormente la sua situazione, iniziando una storia con Faunia, una donna che per mantenersi fa le pulizie nella stessa Università dalla quale ha appena ricevuto il ben servito e che non farà altro che gettare un'ombra ancora più nebulosa sulla sua figura. Faunia infatti è una donna non istruita, la cui complementarietà con Coleman Sink trova ragione d'essere solo nella spirale di assurdità in cui sono precipitati gli eventi. I due sono compatibili non solo perché si attraggono fisicamente, ma anche perché le loro anime deflagrate si complementano vicendevolmente. Ormai allo stato brado, ovvero svincolati dal dovere di rimanere incorniciati in qualche convenzione sociale, i due trovano conforto l'uno nell'altro, senza temere di poter inquinare il proprio status. 
Ciò che emerge alla fine di tutto è una verità piuttosto amara: la società, il punto più alto della collettività umana, non è che un insieme di simboli precari e vuoti, di stereotipie discutibili e schemi facilmente corruttibili, entro i quali si muove un individuo sempre più solo e sperduto. L’uomo che ha il coraggio di credere nel mito sociale, che fa di tutto per essere apprezzato, per guadagnare un qualsivoglia riconoscimento, è condannato a perdersi. La stessa macchina che lo forgia e lo aiuta a emergere, è la stessa che lo masticherà e risputerà maciullato e ormai inutile sulla superficie della Terra. Coleman, Faunia e Les Farley sono coloro che incarnano meglio la defettibilità di un sistema pieno di contraddizioni.  Coleman Sink è l’uomo potente infine detronizzato, Faunia la donna perduta e sfruttata da uomini violenti ed egoisti, Les Farley è un soldato con evidenti segni post-traumatici assurto impropriamente a eroe. Tutti sono perfettamente cristallizzati nelle loro debolezze, cellule ormai irrimediabilmente danneggiate e pronte a essere fagocitate da un sistema senza scrupoli. 

martedì 22 novembre 2022

La luna e i falò - Cesare Pavese












Una lunga poesia, una congiunzione magica e ispirata tra stile e contenuto, un memoriale di cose vecchie e nuove, di cose che non smettono di ritornare e di quelle che non smettono di andare via. La luna e i falò è l'antica favola dell'uomo che torna a casa e la trova uguale eppure irrimediabilmente diversa, una favola che tutti ci siamo sentiti raccontare almeno una volta, e in cui qualcuno potrà anche riconoscersi. Si può capire come questa favola, come questa liturgia del ritorno, possa essere quindi fortemente permeata di nostalgia e di malinconia, nonostante il racconto del protagonista rimanga sempre molto lucido e composto. Intuiamo che lui come tanti se n'è dovuto andare, ma che a un certo punto è dovuto anche tornare. Comincia un viaggio che non è solo quello mesto e nostalgico dell'andare tra i ricordi, ma anche quello imprevisto e novizio dell'andare tra le cose nuove, o meglio tra le cose che si sono sempre conosciute ma che non si sono mai viste in una veste nuova, quella in cui appaiono ora agli occhi del protagonista. 

Quello di Anguilla è un viaggio che ha la connotazione di un viaggio rituale e magico, una sorta di re iniziazione alle cose, narrata in una lingua densamente simbolica, ma è anche, allo stesso tempo, un viaggio desolante, in qualche modo triste, un cammino che scardina e reincardina l’uomo continuamente, da ciò che è sempre stato a ciò che vorrebbe essere, da ciò che non è mai stato a ciò che non sarà mai. Si comprende la portata di questo processo di revisionamento e rinnovamento, tutta condensata nell’immagine del falò, il fuoco che tutto distrugge ma che allo stesso tempo rende la terra più fertile, feconda, sottendendo all’ineludibilità e al potere del cambiamento. Tutto muta eppure la matrice delle cose permane apparentemente immutata. La Terra non muta, così come le sue stagioni, rimane immota nel suo essere foriera di nuova vita. 


Il ritorno del protagonista non segna del resto la chiusura di un cerchio, non è una risoluzione ma l'ulteriore definizione di una crisi che ha luogo da tempo immemorabile nel cuore dell'uomo, una crisi alla quale non sembra esservi una soluzione immediata. È più saggio l’uomo che se ne va, o quello che resta? È più eroico l’uomo che persegue l’individualistico sogno della realizzazione personale o colui che rimane a combattere per difendere i valori della collettività a cui sente di appartenere? Anguilla e la sua guida si contrappongono in un gioco senza vincitori. Sono entrambi sullo stesso piano, Anguilla ha perso perché se n’è andato e Nuto perché è rimasto. Anguilla vince per il suo pragmatismo, per il suo approccio utilitaristico della vita, e Nuto per la meraviglia del suo sguardo, per l’incanto con cui non rinunciamo di guardare alle cose del mondo. Per Anguilla è impensabile ogni simbolismo, se non quello del raccontare, per Nuto è impossibile invece, non credere nei simboli, perché sono la forma più vicina e tangibile di qualcosa che è percepito come disperatamente irraggiungibile . Egli ha ancora fede nella luna e i falò, nel mito, nel magico, e non perché sia stupido ma perché sarebbe impensabile altrimenti. Conosce il potere del fuoco e crede in quello della luna, che quasi beffarda, galleggia sui destini degli uomini e li condiziona inevitabilmente. Non è un caso che da sempre le vicende umane e terrestri siano legate alle fasi lunari. Siamo liberi di crederci o meno ma quello contro cui siamo impotenti è l’immanenza di queste immagini, la tenacia con cui persistono nella cultura popolare e ne alimentano il simbolismo e di conseguenza anche la poesia. Immagini che ci vengono restituite da Pavese in una lingua commovente, incantevole, un linguaggio che da un lato si congiunge con la durezza della terra, che si scarnifica come si spoglia la terra d’inverno e dall’altro si eleva e si tinge di un profondo lirismo, di immagini dolci e indimenticabili. 


giovedì 1 aprile 2021

Revolutionary Road - Richard Yates

 

Tra le stradine tortuose di un tranquillo quartiere di provincia, nel gorgo indistinto di casette tutte uguali, due lucine sembrano scintillare più forti delle altre, sono quelle delle anime dei due protagonisti, Frank e April, ignari rappresentanti di una tragedia che sembra compiersi tanto sul misero palcoscenico di un teatro di provincia, quanto sul proscenio della vita reale. Come in una pièce teatrale mal riuscita, gli attori faticano a calarsi nei propri ruoli, fino a varcare inconsapevolmente il confine più rischioso di ogni tentativo rappresentativo, in cui sembra esista un punto preciso a partire dal quale l'intento artistico subisce una scissione incontrastabile e le probabilità con cui esso può dirigersi verso il successo, o rotolare inesorabilmente verso la pateticità si equivalgono. È qui che fantasia e realtà si sovrappongono, scivolando in una dimensione interpretativa del tutto nuova, in cui si finisce per sentirsi ridicoli e percepire drammaticamente il peso della propria goffaggine, non solo come attori ma anche come esseri umani. Sembra esserne tristemente consapevole Frank Wheeler, quando in una delle prime scene del romanzo, con immensa fatica e sudando copiosamente, si fa largo dietro le quinte del teatro dove il sipario è da poco calato sui volti imbarazzati della compagnia di filodrammatica, per raggiungere la moglie April, che come il lettore può già intuire, è in preda al turbinio emotivo causato dall'innegabile fallimento. Lo spettacolo che avrebbe dovuto suggellarne le capacità attoriali e renderle visibili persino a un manipolo di gente provinciale e incolta, è stato un fiasco totale. Frank però non riesce a mentirle, non riesce a sostenere ulteriormente l'impalcatura fittizia su cui si basano il più delle volte i compromessi delle relazioni umane, e le dice l'unica cosa che non avrebbe dovuto dirle. Ciò dovrebbe importare, soprattutto alla luce di ciò che accade dopo, se non fosse che lei, nel pieno della disillusione, non può essere compatita, né consolata. Siamo già davanti a quella che è la prima brillante inquadratura regalataci dal romanzo, il primo di tanti fotogrammi in cui i confini della comprensione reciproca sembrano sgranarsi sempre di più, mentre si infittiscono quelli dell'incomunicabilità, fino a giungere alla totale e irreversibile destrutturazione del rapporto tra i due amanti. Che sia per l'esaurimento di quella fonte da cui sembrava attingere il loro amore, o per l'incapacità di sopportare oltre i difetti dell'altro, i due alla fine non possono che subire passivamente la progressione del proprio destino. Non è più realizzabile infatti quell'opera di onestà che rappresenta il riconoscimento dei propri errori, se essa non è antiteticamente corrisposta. 
Frank e April annegheranno nel vuoto vorticoso della loro stessa ipocrisia, quando finiranno a subire gli stessi condizionamenti di cui si erano fatti censori, a raccogliere le infiorescenze velenose di una vita costruita di pregiudizi e stereotipi, senza poter fare altro che guardar capitolare tutte le ambiziose aspettative giovanili. È il fallimento di un amore, ma anche di un sogno, quello irrealizzabile di coronare un ideale che abbia il sentore di rivoluzione, di condurre una vita esattamente come la si era immaginata: vivere in una casa senza polvere, crescendo dei figli perfetti, imbastendo deliziose cenette e ignorando che possa subentrare alcunché a distruggere l'equilibrio perfetto. Le falle dunque non sono ammesse, seppur visibili ovunque: si rintracciano nelle pulsioni illecite che guidano gli istinti di Frank e April Wheeler verso la realizzazione di cliché da fedifraghi, nelle idee equivocabili di un pazzo che va e viene dal manicomio e le cui parole suonano, però, fastidiosamente vere, nell'impossibilità di una donna di vedersi riconosciuta la femminilità che le appartiene di diritto, se non quando si accompagni alla nascita di un figlio. 
Il copione della vita sembra ripetersi sempre allo stesso modo, seguendo un canovaccio di ataviche reminiscenze. Paradossalmente, non vi è nulla di rivoluzionario nelle vite dei protagonisti, se non l'ultimo disperato tentativo di sganciarsi dalla banalità delle proprie esistenze. 

mercoledì 8 marzo 2017

Le braci - Sandor Màrai

Era da tempo che non rimanevo così colpita da un libro. Il termine giusto è ipnotizzata. Dopo i primi capitoli, che mi avevano in parte scoraggiata dal proseguire la lettura, ecco la magia vera e propria, condensata in poche, ma indimenticabili pagine di assoluto splendore. Di capolavori ne esistono tanti, di grandi scrittori anche, ma forse sono davvero pochi quelli con la stessa capacità di Màrai di parlare dell'uomo, arrivando così in fondo al punto da imbastire, nel contesto di un breve romanzo, una vera e propria indagine psicologica. E se all'inizio, quando ho cominciato la lettura ancora non me ne rendevo perfettamente conto, alla fine ho compreso che quella che stavo leggendo, era letteratura nella sua forma più sublime, quella che al puro intento narrativo somma quello riflessivo e si pone come audace traslitterazione delle contraddizioni dell'animo umano, illuminandone gli angoli più nascosti, disotterrando istinti repressi e oscure controversie. Quello che dovrebbe essere un dialogo catartico tra due amici, si carica in realtà di molteplici significati, apparendo ora come lucida ricostruzione di un passato ormai irrecuperabile, ora come attesissima vendetta che riconosce il suo fallimento ancora prima di compiersi, ora come confessione di un animo indebolito e fiaccato dalla vecchiaia, che cerca invano un risarcimento alla sua stessa vanità. Ne risulta complessivamente un ritratto disarmante e lucido che rende suo malgrado più trasparente il mare torbido in cui versa il genere umano. Impossibile non riconoscersi in qualche tratto del monologo di Henrik, snocciolato con rigorosa sistematicità di fronte all'impassibile e muto Konrad. Sarebbe come non riconoscersi umani, o stentare a farlo per pudicizia, vinti solo dall'ineluttabilità che assume questo processo di riconoscimento quando si specchia nelle parole di un grande scrittore con l'abilità e la padronanza di linguaggio atti a sobbarcarsi tale compito. Impossibile non rimanerne incantati, non giungere alla fine con l'impressione di aver scoperto qualcosa di noi stessi, che prima avevamo solo sfiorato o arditamente sospettato. Come dice Henrik "l'uomo scopre il mondo un po' alla volta e poi muore." Marài mette due uomini diversi a confronto, prima legandoli strettamente col vincolo dell'amicizia, poi conducendoli verso un inevitabile  e drammatico distacco, che non assume mai i toni di un diverbio vero e proprio o di uno scontro fisico, ma ne irrigidisce i cuori lentamente, scorporandoli definitivamente da quel sodalizio a cui giovani e ingenui, avevano consacrato se stessi.


 “Esiste una cosa peggiore della morte e di qualsiasi sofferenza, la perdita della stima di sè. Quando si viene colpiti da una o più persone nella stima di sè, che costituisce la nostra dignità di uomini, la ferita è talmente profonda che neanche la morte può porre fine a questo tormento. È una questione di vanità, mi dirai. Di vanità, sì...e tuttavia la stima di sè è il contenuto più profondo della vita umana. Ecco perchè quelli che temono di perderla accettano qualsiasi soluzione, anche la più vigliacca - guardati intorno e vedrai che la vita è piena di mezze soluzioni come queste: l'uno si staccherà dall'essere che ama, l'altro rimarrà sul posto e si chiuderà nel silenzio, nella perenne attesa di una risposta...”

venerdì 27 gennaio 2017

Il labirinto degli spiriti - Carlos Ruiz Zafòn

Dovrei prefissare delle scadenze improrogabili per questo blog, delle date in cui scrivere un post, qualunque cosa accada, per non lasciar passare mesi senza scrivere nulla. Mi sembra che mi manchi il tempo per gestire bene il blog, o forse sono io che come al solito prendo le cose troppo seriamente, tanto più che al momento mi sento come in una sorta di limbo esistenziale in cui qualsiasi cosa faccia per dare una svolta positiva alla mia vita, pregiudica l'esistenza di un altro aspetto positivo. Una gioia esclude l'altra, insomma. E così avanzo e retrocedo in una giostra infinita. Posso sempre dare la colpa al processo di crescita, o meglio di invecchiamento, dato che non mi trovo più in quella fase della vita in cui si è giustificati per il fatto di non riuscire a rinunciare a niente. Mai come ora vedo la vita come un labirinto: c'è una sola strada per arrivare ma colui che attraversa il labirinto continua a perdersi, disorientato dalle colonne di siepi che tracciano infinite strade diverse. Non so se è un caso che io abbia partorito questa metafora dato l'ultimo libro letto, l'ultima fatica di Zafòn, che poi è quello di cui dovevo parlare in questo post. E quindi, eccomi di nuovo alle prese con le parole, per tentare di dare forma ai pensieri e a una descrizione che renda tutto il merito a questo libro.

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Il labirinto degli spiriti 

Esistono storie più intricate di un nodo gordiano, fatte di intrecci dai percorsi invisibili e apparentemente insolubili. Proprio come un abile intessitore, chi racconta queste storie, usa le parole come se fossero fili robusti per imbastire variopinte trame dagli infiniti risvolti. Zafòn pare un maestro in questo, forte, anche e soprattutto, di tutti quegli espedienti narrativi che sorreggono, come invisibili pilastri, l'impalcatura di una scrittura che nasconde maldestramente i suoi artifici e il segno di un costante labor limae, e che trasformerebbero persino la trama più insignificante in un romanzo di successo.
Il risultato è una storia da cui fluisce copioso un potente miscuglio di mistero, suspense e intrigo. È quel tipo di energia di cui i lettori, o i lettori come me, sono ghiotti.  Finisce che libri così, di 800 pagine, si fagocitano come niente. 
Il labirinto degl spiriti giunge a conclusione di un ciclo iniziato anni fa, con L'ombra del vento e il successivo Il gioco dell'angelo a fare da capostipiti nel circuito de Il cimitero dei libri dimenticati. Romanzi che, da adolescente invaghita non solo dei libri ma di tutto ciò che orbita loro intorno, ho amato e ora, da semi-adulta che non ha smesso di fare di pagine e inchiostro il centro gravitazionale della propria vita, amo, se possibile, ancora di più. 
Con una punta di amara nostalgia, che si riserva ai vecchi amici, si legge di un Daniel Sempere ormai adulto e di un Fermìn che non ha perso la sua verve umoristica e regala ancora parecchio colore alla penna di Zafòn, sempre imbrunita da atmosfere gotiche ed esemplarmente tenebrose. Una nebbia oscura avvolge quella che non è mai stata semplicemente uno sfondo, ma un'onnipresente comprimaria nelle rocambolesche avventure dei personaggi. Barcellona è meravigliosa, fosca e sublime nell'immaginazione di uno scrittore che sembra averne carpito i segreti più profondi e ce la rimanda in quella che probabilmente è la forma che più le si addice, coperta da nuvoloni neri e l'immancabile vaporosa oscurità che inghiotte e trasmuta fatti e persone. Su ogni cosa, ogni strada, ogni edificio, è impresso il marchio incofondibile di una maledizione di cui si tacciono le origini, ma di cui sono ben visibile le conseguenze deformanti.
Nel corteo di personaggi, via via presentati, di cui presto si perdono le tracce, o si dimenticano i nomi, spicca solitaria una figura femminile che nasce probabilmente da una genuina ammirazione per il femminino, per le risorse e la forza di cui le donne sono capaci, anche nei momenti più insospettabili. 
Alicia Gris è la carta vincente, l'affidataria di un'impresa che finora era toccata a un circolo esclusivo di protagonisti maschili, e in cui le donne figuravano come vittime o come semplici contenitori di amore e bellezza. Il corpo di Alicia, che pur di bellezza trasuda, è un ricettacolo di sfortuna che ne ha trasformato una buona parte in un groviglio di cicatrici e dolore, ma anche di intelligenza, impulsività e intraprendenza, che ne hanno fatto la prescelta per una missione dal grado di letalità elevatissimo. Alicia ha un unico indizio concreto da cui partire. Un libro prezioso e oscuro, di uno scrittore dimenticato, che la conduce, attraverso il Cimitero dei Libri dimenticati, in un gorgo di antichi e nuovi segreti di cui nessuno sospetterebbe l'orrore.
Come ogni libro che si rispetti, non manca di difetti, come la fine che giunge fin troppo in ritardo e il piccolo libro che chiude per sempre la saga, posto come ultimo capitolo, a fare da riassunto a quello che in ottocento pagine non si è riusciti a dire, o scene che se anche dipinte con l'intenzione della massima originalità, risultano fin troppo banali, reiteranti al punto da risultare distruttive per un romanzo che non ha bisogno di così tanti orpelli per mantenersi in piedi.
Ciò che non si dimentica dei libri di Zafòn è, come al solito, non tanto la trama, sebbene articolata e complessa, quanto la scrittura che ne anima ogni singolo dettaglio, di cui quasi ogni paragrafo riluce. Una forma personalissima che l'autore regala alle parole, componendo periodi magnifici che ne rappresentano, più di Barcellona, più dei personaggi travagliati, più dell'oblio che risucchia certe anime e della natura dei misteri svelati, l'inconfondibile marchio di fabbrica.

“Quella notte sognai di tornare nel Cimitero dei Libri Dimenticati. Avevo di nuovo dieci anni e mi svegliavo nella mia vecchia stanza avvertendo che la memoria del viso di mia madre mi aveva abbandonato. Nel modo in cui si sanno le cose nei sogni, sapevo che la colpa era mia e soltanto mia perchè non meritavo di ricordarlo e perchè non ero stato capace di renderle giustizia.”

martedì 3 gennaio 2017

Chiedi alla polvere - John Fante


Porto male la mia età. La mia gioventù, così poco sfruttata, è un vestito che non mi è mai calzato a pennello. Il più delle volte però non me ne cruccio. In un certo senso mi compiaccio della mia vetusta personalità e mi lascio nutrire da un certo soffio malinconico quando, invece di uscire, scelgo di rimanere rintanata in qualche luogo accogliente a leggere un libro, mentre il resto del mondo è fuori a scalpitare, a sguazzare felice e contento in un vocio continuo che parla di idee, di esperienze, di avventure.
Ma leggere è sempre stato il mio modo di conoscere e imparare, e posso dire di aver appreso dai libri più che da ogni altra cosa. Ancora adesso, la mia giornata ideale comincerebbe in una libreria, tra migliaia di tomi che attendono solo di essere letti e scoperti, e finirebbe su un divano, a leggere un volume di migliaia di pagine, con una tazza di tè fumante in mano.
In uno dei miei viaggi in libreria, ho scoperto John Fante e il suo Chiedi alla polvere. Quella copertina in bianco e nero, con il nome di Fante vergato in rosse lettere cubitali, mi attirava come nient'altro. In un certo senso presentivo un'intesa perfetta, che effettivamente c'è stata. Forse Arturo Bandini è il protagonista con cui mi sono identificata di più finora, complice la sua, a tratti odiosa, a tratti esilarante, umanità.
Mai avrei pensato che ad animare un piccolo romanzo di duecento pagine, sarebbe stato un protagonista del tutto fuori dalle righe, così dissimile dagli eroi letterari a cui siamo abituati e che alla lunga risultano deludenti e poco realistici. La verità, che solo i grandi capolavori custodiscono, è che tra gli uomini non vi sono eroi e Arturo Bandini  ne è la prova eclatante. Alieno tra le tante astratte creazioni letterarie,  lontanissimo da quasiasi stereotipo letterario, chiaro alter ego di uno scrittore che al sogno della letteratura dedicò tutta la sua vita, fino all'ultimo respiro. 
L'esistenza di Arturo Bandini non si discosta poi tanto da quella di un ordinario essere umano, impegnato a districarsi in un gioco di alti e bassi e a fare i conti con una vita intassellata di pretenziose ambizioni e cocenti delusioni. Come tanti, prima e dopo di lui, sogna di diventare uno scrittore, e a questo sogno così prezioso sacrifica la necessità di trovare un impiego stabile, come farebbe un uomo coscienzioso. Al contrario, si trasferisce a Los Angeles, che diventa a tutti gli effetti una co-protagonista, tanto adatta a rimpinguare lo spirito creativo del personaggio quanto a scarnificarne il portafogli e insabbiarne le speranze nella polvere delle sue strade. Arturo è quasi sempre al verde, costretto a dipendere ancora dalla madre, quando non vi sono alternative. Eppure quel poco denaro di cui dispone, non resiste molto nelle sue tasche. Si capisce quando il protagonista ne spende anche l'ultimo cent per un caffè disgustoso nel bar dove incontra Camilla. Le tribolazioni di questi due personaggi, infelici in modo diverso, finiscono per intrecciarsi e costituire gran parte del romanzo, l'uno troppo impegnato ad appianare le infinite contratture di un'esistenza complicata, per fare spazio all'amore, e l'altra un'anima adombrata dalla crudeltà di un amore non corrisposto. Inebetito da qualcosa a cui lui stesso non può dare un nome, Arturo si lascia sfuggire le numerose occasioni di mostrare a Camilla la sua virilità, fino a quando ebbro di alcol e di amore, riesce finalmente nell'intento. Eppure neanche questo basta e persino l'amore si rivela un'illusione destinata a polverizzarsi col resto.
Chiedi alla polvere è un romanzo senza fine, in fondo, o piuttosto un cerchio perfetto, in cui la fine sembra ricongiungersi quasi perfettamente all'inizio, tra pagine venate alternativamente di sublime lirismo e di ironica amarezza. Impossibile non innamorsene fin dalle prime righe:

“Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d'albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell'albergo. O pagavo, o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.”

martedì 2 agosto 2016

Lo strano caso di una blogger indecisa


Bello, bellissimo, dopo due settimane senza internet, tornare qui, sul blog, rivedere la forma che gli ho dato, e apprezzarla come se la vedessi per la prima volta, come un visitatore e non come quella che si occupa di questo posto.
Perché sì, anche questo è un posto ed è incredibile pensare a quante cose possa contenere. Miliardi, tra immagini e parole. In fondo non è poi così terribile avere un blog, non è poi così terribile averlo adorato e poi odiato, essersi entusiasmati per aver creato qualcosa e subito dopo averlo disprezzato. Non è poi così terribile aver pensato di trasformarlo in un non-posto, di rigettarlo nell'astratta marea del nulla, di disfarsene come un vestito vecchio. Tipico. Di me. Fin troppo prevedibile. Ragazza negativamente tenace. Caparbia quando non devo. O forse dovevo. Forse mi sono sopravvalutata.
Pensavo di poter leggere abbastanza libri per gestire un blog sui libri, ma le cose sono leggermente cambiate da qualche anno a questa parte. Leggere non mi impegna più come prima. Mi piace ancora, ma non si fagocita tutto il mio tempo. Un po' mi dispiace, anzi mi dispiace tantissimo ma l'anno scorso è finita che ho letto poco, vergognosamente poco. Libri cominciati e mai finiti. Penso che continuerò comunque a parlare di libri che rimangono il mio sempiterno interesse, e di altre cose, e a pensare presuntuosamente che possa nascere qualcosa di bello da un momento all'altro.

lunedì 18 luglio 2016

Colpa delle stelle - John Green


Commento a caldo. Quando ancora le emozioni bruciano. Non avrei mai pensato di potermi innamorare così di una storia. Nel giro di qualche ora Colpa delle stelle, storia strappalacrime di due adolescenti malati di cancro, irrimediabilmente attratti l'uno dall'altra, che cercano di rubare alla malattia un po' di tempo per innamorarsi e vivere, mi ha trasformato da essere senziente e padrone di sè a essere annaspante e boccheggiante che non respira più dal naso. Io non so come l'abbiano presa gli altri sta storia di Colpa delle stelle ma io l'ho presa male, molto male. Anche ai ringraziamenti. I ringraziamenti! Quella parte che forse non importa a nessuno tanto il libro è finito ma che io leggo sempre perché penso, chissà quanto deve essere bello ringraziare quelli senza i quali un libro non potrebbe esistere. John Green lo sa di aver scritto qualcosa di delicato e insieme immenso? Domande retoriche a parte, mi pongo una domanda seria. Perché non ho letto il libro prima? In realtà l'ho accuratamente evitato, perché sapevo tutto, anche senza averlo letto e proprio per questo non volevo leggerlo. Mi faccio incatenare dalle storie tristi. E questa è la regina delle storie tristi. Non voglio impegnarmi tanto nemmeno a scrivere una virtuosistica recensione,  perché le recensioni non sono il mio mestiere né si potrebbe usare una parola così fredda per inscatolare una storia come questa. Leggi un libro, lo finisci, ne fai una recensione. Scrivi cose che nessuno ti ha chiesto di scrivere semplicemente perchè leggere un libro e non poterne parlare con nessuno equivale a non averlo letto. Eppure, in questo caso, non mi sento degna neanche di scrivere un misero commento. 
Come ha fatto John Green a sapere di essere giusto per questa storia? Come ha fatto ad accettare di non dover fingere? A scrivere cose che continuano a essere vere anche dopo averle rinchiuse in una scatola di inchiostro e carta, un prodotto fatto e finito, pronto per essere venduto? I protagonisti smettono di esistere nel momento in cui il libro finisce, come in Un'imperiale afflizione, il libro preferito di Hazel, che non capisce come una storia possa interrompersi quando muore il protagonista e si incaponisce sul destino di cose che non esistono. Che fine hanno fatto il criceto Sysiphus, l'Olandese dei Tulipani o la Madre di Anna? Mentre li leggi ti sembrano nomi strani ma ne intuisci vagamente l'estrema importanza. Un po' di verità è nascosta tra le pagine di un libro oggettivamente bizzarro ma non per questo immeritevole di essere letto o di diventare il preferito di una ragazzina di sedici anni, che all'irregolarità di una vita corrosa dalla malattia, deve aggiungere anche tante domande senza risposta. 
Nulla di strano che Per Hazel sia di fondamentale importanza sapere che la vita continua anche dopo la morte di Anna, tanto da costruirci sopra infinite peregrinazioni mentali, da spendere intere giornate a leggere e rileggere sempre lo stesso romanzo, tentando di immaginare ogni possibile sfaccettatura di un destino che ha trafitto una vita immaginaria tanto quanto ha trafitto la sua. 
E la dolcezza e l'amore di Augustus, con le sue personalissime tribolazioni e valide ragioni per cui preoccuparsi, che spreca, si fa per dire, il suo ultimo desiderio per combattere la battaglia di un altro. 
E noi lettori? Il libro è finito ma è impossibile rassegnarsi all'idea che Augustus e Hazel non esistano più, che il primo abbia incontrato un destino incompatibile per uno che possiede il carisma luminoso di una stella, e che alla seconda aspetti, con ogni probabilità un epilogo simile. Non accettiamo di doverli lasciare quando sappiamo che stanno per andarsene. Non li seguiremmo nel luogo in cui si sono conosciuti e che simmetricamente diventa il luogo più adatto per dirsi addio. Non c'è più tempo per le sigarette spente che penzolano all'angolo di un sorriso sghembo e irriverente, nè per le risonanze metaforiche che piacciono tanto ad Augustus. C'è solo la brutale evidenza. Quella che non ti vuole in questo mondo, anche se tu hai tentato di tutto per renderti magnifico, per farti ricordare. Il tanto detestato Cuore di Gesù è il limbo dove emergono i sentimenti, si frantumano le schermaglie e le resistenze, si è irrimediabilmente e definitivamente umani, con tutte le controindicazioni e le conseguenze annesse. Poi poche pagine alla fine, quella vera, quella che a un certo punto del libro, prima vagamente accennata, poi sempre più concreta, sapevi sarebbe arrivata, a ferire vite già ferite, a spazzare tutto quel contegno conquistato in anni di letture. Se la colpa non è nelle stelle allora dov'è?  È davvero dentro di noi, come Shakespeare fa dire a Bruto e come ci riporta ossequiosamente John Green? È tutto così seriamente reale che fa semplicemente male. E sembra di intrufolarsi dentro dimensioni così  segrete e private che ci vorrebbe un permesso speciale per parlarne. E io questo permesso non ce l'ho e ho detto fin troppo. Infinito è il numero di stelle che marcano questa lettura, il grado di apprezzamento per un romanzo che prima di essere una storia di carta è anche e soprattutto verità fatta di nomi veri e di testimonianze. Verità che emoziona, conquista e stupisce, e si prende un posto indimenticabile in un infinito di altre storie.


Nel tardo inverno dei miei sedici anni mia madre ha deciso che ero depressa, presumibilmente perché non uscivo molto di casa, passavo un sacco di tempo a letto, rileggevo infinite volte lo stesso libro, mangiavo molto poco e dedicavo molto del mio tempo libero a pensare alla morte.
Tra gli opuscoli che parlano di tumori o nei siti dedicati, tra gli effetti collaterali del cancro c'è sempre la depressione. In realtà la depressione non è un effetto collaterale del cancro. La depressione è un effetto collaterale del morire.

giovedì 12 novembre 2015

Il ritratto di Dorian Gray - Oscar Wilde

“Uno dopo l'altro si alzano i sottili veli di grazia scura, e a grado a grado le cose si vedono restituire le loro forme e i loro colori, e vediamo l'alba rifare il mondo nel suo disegno antico. Gli esangui specchi risplendono la loro vita imitativa. Le candele spente stanno in piedi là dove le abbiamo lasciate, e accanto a loro giace il libro semisfogliato che stavamo studiando, o il fiore con un filo di metallo per gambo che abbiamo portato al ballo, o la lettera che non abbiamo avuto il coraggio di leggere, o che abbiamo letto troppo spesso. Nulla ci sembra mutato. Dalle ombre irreali della notte ritorna la vita reale che ben conosciamo. Dobbiamo riprenderla là dove abbiamo smesso, ed ecco che si impossessa di noi il terribile senso della necessità di continuare a spendere la nostra energia nella stessa noiosa routine di abitudini stereotipate, o forse il selvaggio desiderio di poter aprire i nostri occhi su un mondo rinnovellatosi nella tenebra per il nostro piacere, un mondo in cui le cose abbiano forme e colori nuovi, e sia mutato, o abbia altri segreti, un mondo in cui il passato abbia poco o nessun posto.”
da Il ritratto di Dorian Gray (O.Wilde)
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/aforismi/tempi-moderni/frase-99097?f=w:4>

domenica 1 novembre 2015

Un po' di poesia - Walt Whitman, Il canto di me stesso


XXXI

Credo che una foglia d'erba non sia meno di un giorno
di lavoro delle stelle,
e ugualmente è perfetta la formica, e un grano di sabbia,
e l'uovo dello scricciolo,
e una raganella è un capolavoro dei più alti,
e il rovo rampicante potrebbe adornare i salotti del cielo,
e la più stretta linea della mia mano se la può ridere di
ogni meccanismo,
e la vacca che rumina a testa bassa supera ogni statua,
e un topo è un miracolo sufficiente a far vacillare miriadi di miscredenti.

Scopro che incorporo gneiss, carbone, muschio dalle
lunghe striature, frutta, grani, radici commestibili,
sono stuccato, dipinto di quadrupedi e uccelli,
e ho distanziato ciò che è rimasto indietro per buone ragioni,
ma posso richiamare ogni cosa se lo desidero.

Invano affrettarsi o ritrarsi,
invano le rocce plutoniche emettono la loro antica vampa
contro di me quando mi avvicino,
invano il mastodonte si ritira sotto le sue ossa fatte
polvere,
invano oggetti se ne stanno leghe e leghe lontano e
assumono forme molteplici,
invano l'oceano si sistema nelle sue caverne profonde e i
grandi mostri vi giacciono,
invano la poiana fa del cielo la sua casa,
invano il serpente striscia tra i rampicanti e i tronchi,
invano l'alce va per i più interni passaggi della foresta,
invano la gazza marina dal becco a rasoio fa vela per il
nord sino al Labrador,
io la inseguo veloce, salgo al suo nido nella fenditura del dirupo.

Da Il canto di me stesso (Foglie d'erba, Walt Whitman)