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mercoledì 8 marzo 2017

Le braci - Sandor Màrai

Era da tempo che non rimanevo così colpita da un libro. Il termine giusto è ipnotizzata. Dopo i primi capitoli, che mi avevano in parte scoraggiata dal proseguire la lettura, ecco la magia vera e propria, condensata in poche, ma indimenticabili pagine di assoluto splendore. Di capolavori ne esistono tanti, di grandi scrittori anche, ma forse sono davvero pochi quelli con la stessa capacità di Màrai di parlare dell'uomo, arrivando così in fondo al punto da imbastire, nel contesto di un breve romanzo, una vera e propria indagine psicologica. E se all'inizio, quando ho cominciato la lettura ancora non me ne rendevo perfettamente conto, alla fine ho compreso che quella che stavo leggendo, era letteratura nella sua forma più sublime, quella che al puro intento narrativo somma quello riflessivo e si pone come audace traslitterazione delle contraddizioni dell'animo umano, illuminandone gli angoli più nascosti, disotterrando istinti repressi e oscure controversie. Quello che dovrebbe essere un dialogo catartico tra due amici, si carica in realtà di molteplici significati, apparendo ora come lucida ricostruzione di un passato ormai irrecuperabile, ora come attesissima vendetta che riconosce il suo fallimento ancora prima di compiersi, ora come confessione di un animo indebolito e fiaccato dalla vecchiaia, che cerca invano un risarcimento alla sua stessa vanità. Ne risulta complessivamente un ritratto disarmante e lucido che rende suo malgrado più trasparente il mare torbido in cui versa il genere umano. Impossibile non riconoscersi in qualche tratto del monologo di Henrik, snocciolato con rigorosa sistematicità di fronte all'impassibile e muto Konrad. Sarebbe come non riconoscersi umani, o stentare a farlo per pudicizia, vinti solo dall'ineluttabilità che assume questo processo di riconoscimento quando si specchia nelle parole di un grande scrittore con l'abilità e la padronanza di linguaggio atti a sobbarcarsi tale compito. Impossibile non rimanerne incantati, non giungere alla fine con l'impressione di aver scoperto qualcosa di noi stessi, che prima avevamo solo sfiorato o arditamente sospettato. Come dice Henrik "l'uomo scopre il mondo un po' alla volta e poi muore." Marài mette due uomini diversi a confronto, prima legandoli strettamente col vincolo dell'amicizia, poi conducendoli verso un inevitabile  e drammatico distacco, che non assume mai i toni di un diverbio vero e proprio o di uno scontro fisico, ma ne irrigidisce i cuori lentamente, scorporandoli definitivamente da quel sodalizio a cui giovani e ingenui, avevano consacrato se stessi.


 “Esiste una cosa peggiore della morte e di qualsiasi sofferenza, la perdita della stima di sè. Quando si viene colpiti da una o più persone nella stima di sè, che costituisce la nostra dignità di uomini, la ferita è talmente profonda che neanche la morte può porre fine a questo tormento. È una questione di vanità, mi dirai. Di vanità, sì...e tuttavia la stima di sè è il contenuto più profondo della vita umana. Ecco perchè quelli che temono di perderla accettano qualsiasi soluzione, anche la più vigliacca - guardati intorno e vedrai che la vita è piena di mezze soluzioni come queste: l'uno si staccherà dall'essere che ama, l'altro rimarrà sul posto e si chiuderà nel silenzio, nella perenne attesa di una risposta...”

giovedì 12 novembre 2015

Il ritratto di Dorian Gray - Oscar Wilde

“Uno dopo l'altro si alzano i sottili veli di grazia scura, e a grado a grado le cose si vedono restituire le loro forme e i loro colori, e vediamo l'alba rifare il mondo nel suo disegno antico. Gli esangui specchi risplendono la loro vita imitativa. Le candele spente stanno in piedi là dove le abbiamo lasciate, e accanto a loro giace il libro semisfogliato che stavamo studiando, o il fiore con un filo di metallo per gambo che abbiamo portato al ballo, o la lettera che non abbiamo avuto il coraggio di leggere, o che abbiamo letto troppo spesso. Nulla ci sembra mutato. Dalle ombre irreali della notte ritorna la vita reale che ben conosciamo. Dobbiamo riprenderla là dove abbiamo smesso, ed ecco che si impossessa di noi il terribile senso della necessità di continuare a spendere la nostra energia nella stessa noiosa routine di abitudini stereotipate, o forse il selvaggio desiderio di poter aprire i nostri occhi su un mondo rinnovellatosi nella tenebra per il nostro piacere, un mondo in cui le cose abbiano forme e colori nuovi, e sia mutato, o abbia altri segreti, un mondo in cui il passato abbia poco o nessun posto.”
da Il ritratto di Dorian Gray (O.Wilde)
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/aforismi/tempi-moderni/frase-99097?f=w:4>

martedì 22 settembre 2015

Una famiglia quasi perfetta - Jane Shemilt / Book review

Titolo originale: Daughter
Pagine: 330 

Jenny non conosce i pensieri di sua figlia, da un anno ormai. O potrebbe essere da più tempo, da quel momento in cui i figli smettono di ascoltare i genitori e i genitori smettono di insistere. Ora che Naomi non c'è più, sono tante le cose per cui Jenny si rimprovera. Avrebbe dovuto fare più attenzione ai particolari, ai dettagli, alle smorfie, ai mezzi sorrisi, ai vuoti di parole, ai discorsi troppo spesso rimandati. Se solo avesse ascoltato, se solo fosse stata più presente. A un anno dalla sua scomparsa, sembra troppo tardi per capire cosa le sia successo, è passato molto tempo, un tempo che si è riempito di rimorsi e di ricerche infruttuose, di una caccia all'uomo lungo una pista di indizi insufficienti, un diario con delle annotazioni sconnesse, gli abiti dimessi della passata recita scolastica, un furgoncino blu a cui nessuno ha mai fatto caso, ma che diventa improvvisamente importante quando lasciato a deteriorarsi nelle spire distruttive del fuoco, per disintegrare ogni traccia di quello che potrebbe essere o è stato. Da un novembre all'altro non è cambiato nulla, né le ricerche hanno riportato indietro Naomi, né il tempo ha ridimensionato l'angoscia di chi ha dovuto fare i conti con l'orrore più grande, la perdita di un figlio. O di una sorella. 
A una madre che ha guardato sua figlia muovere i suoi primi e ultimi passi, da quando ha imparato a camminare, a quando è uscita di casa, in equilibrio su tacchi vertiginosi, e non più tornata, non rimane che un blocco di fogli bianchi su cui ricominciare a disegnare la vita, partendo dai dettagli che non ci sono più.
Jenny e Ted, Ed e Theo sono i pezzi che rimangono di una famiglia, come tante, che si credeva perfetta ma perfetta non lo era nemmeno lontanamente. Il copione è sempre quello, ma la vita reale non tollera attori inadeguati al ruolo. Una figlia che scompare, un marito che tradisce la moglie e dei figli che nascondono piccoli o grandi segreti, sono troppo pure per drammi di americana bellezza. Quando si è sotto la luce dei riflettori, nemmeno l'atmosfera che il nuovo anno ha saturato di speranza, o un meraviglioso cottage nel Dorset o la neve che cade copiosa riescono a coprire quello che ormai è invisibile soltanto agli occhi di chi non vuole vedere. 
Forse lo spettacolo apparirà più godibile da un'altra prospettiva, se ci si allontanerà un po', e si deporranno la cecità e le armi inutili. Allora, forse, anche un cuore incredulo potrà scorgere la verità.



Dorset 2010. Un anno dopo. Le giornate si accorciano. Sul prato sono sparse le mele cadute, la polpa beccata dai corvi. Oggi, prendendo dei ciocchi dalla catasta al riparo del tetto, ne ho calpestata una già rammollita; si è sfatta sotto il mio piede. Novembre. Ho sempre freddo, ma lei potrebbe averne di più. Perché dovrei cercare di star bene? Come potrei?

giovedì 3 settembre 2015

Il cardellino - Donna Tartt



Quanto rumore ha fatto il cardellino quando è uscito dal suo guscio, un po' più di un crac, una crepa sonora sull'involucro di aspettative che separa un romanzo dal mondo. C'è chi lo attendeva, chi vi avrà colto subito le premesse di un'infatuazione generale, chi lo ha trasformato in Pulitzer e chi invece non vi ha badato subito e ha udito in ritardo l'eco delle voci di chi i libri li legge, li scrive e li critica, nella difficile impresa di guidare il mondo nelle sue scelte letterarie.

Penso di appartenere all'ultima categoria, io che di Donna Tartt non sapevo nulla, ho snobbato il Cardellino con estrema facilità, preferendogli Dio di illusioni, della stessa autrice. Quello che mi serviva per amare Donna Tartt, per inneggiare al suo stile, per desiderare che invece di aver scritto un libro ogni dieci anni, ne avesse scritto almeno uno all'anno, perché a quest'ora probabilmente li avrei tutti sullo scaffale, tutto quello che mi serviva l'ho trovato in quella “storia segreta” che oltre a essere un'opera prima è anche, e prima di tutto, un capolavoro. E di più non mi serviva.
Quando ho comprato tempo dopo Il cardellino, uscito nel frattempo in edizione economica, sapevo cosa aspettarmi ma sapevo anche cosa non aspettarmi. Non mi aspettavo un libro migliore di dio di illusioni, perché di solito le idee, la creatività non crescono nel tempo, semmai sbiadiscono.
Il cardellino non è l'eccezione che conferma la regola, ma solo la regola che si ripete per l'ennesima volta, un romanzo che imita il romanzo, una storia che cerca un motivo e non lo trova, dita che pizzicano una corda che non esiste. Più che un romanzo, the goldfinch a me è sembrato un'opera edile, un sommo grattacielo fatto di periodi bellissimi e di fin troppo lucide e articolate considerazioni sull'esistenza, che non bastano, però, per fare di un semplice mattone un palazzo stabile e solido.
Intreccio disordinato e caotico, personaggi ambigui e un'incredibile quantità di fatti dentro cui, inevitabilmente, ci si smarrisce. Il senso di perdizione potrebbe essere il filo conduttore di tutto il romanzo, a un estremo e all'altro del quale, ci sono Theo bambino e Theo adulto, e in mezzo le sue peregrinazioni fisiche e mentali, il dolore e la perdita, la necessità di tenere tutto nascosto, di impedire alla verità di diventare realtà tangibile e concreta.
Sempre e comunque, Theo contro sé stesso, contro il fato, contro tutto, sballottato continuamente da un luogo all'altro, tra finti buoni e cattivi veri, in un fiume di pagine, tantissime. Un'epopea infinita, un romanzo di Dickens.

Non sono la storia di Theo o il cardellino o il numero delle pagine a qualificare questo romanzo. Il cardellino si legge non per l'originalità della storia, ma per lo stile inconfondibile, la prova di una bravura indiscutibile, si legge per certe frasi stupende e per quelle ultime pagine, bellissime, scritte chissà come, se di getto, o come risultato di una lunga elaborazione. Sta di fatto che non si dimenticano.
Ecco l'incipit:

"Quand'ero ancora ad Amsterdam, per la prima volta dopo anni sognai mia madre. Ero rimasto confinato nella mia stanza d'albergo per più di una settimana, terrorizzato all'idea di chiamare chicchessia o di mettere il naso fuori, il cuore che fremeva e sussultava anche al più innocuo dei rumori: il campanello dell'ascensore, l'andirivieni del carrello del minibar, persino i campanili delle chiese che scandivano le ore, de Westertoren, Krijtberg, un clangore dai contorni vagamente oscuri, come i presagi di sventura delle fiabe. "



mercoledì 27 maggio 2015

Bees : la fortezza delle api - Laline Paull




Titolo originale : Bees
Pagine: 392


Bees, La fortezza delle api è la cronaca della vita di uno stuolo di api, una fiaba bucolica che diventa distopia quando un'anomala diversione si insinua nel naturale assetto dell'alveare. Una storia fantasiosa che ha un famoso precedente: ne La fattoria degli animali di Orwell, gli animali di una fattoria parlano, pensano, sentono, e lo fanno anche lucidamente. Unico loro ragionevole chiodo fisso: ribellarsi al dominio prepotente degli uomini e conquistare il potere. Ma qui in Bees, dell'uomo non vi è che una debole e lieve traccia. C'è più di Hunger Games, rispetto a cui è lampante la sovrapposizione dei temi, come la divisione in caste, e uguale la distorsione dello spirito sociale a beneficio di un solo gruppo che per forza e caparbietà è riuscito a imporsi sugli altri, nonostante i propositi discutibili. Il mondo delle api si prestava perfettamente alla costruzione di un romanzo distopico. Le api, come altri insetti, sono individui sociali e come tali rispettano un sistema di rigide regole in cui il benessere collettivo viene sempre prima di quello del singolo ed è così importante che a esso le api sacrificano persino la propria vita.

Nell'alveare gemmato dalla fantasia di Laline Paull, le cose non vanno esattamente così. Conosciamo subito Flora 717 che dal momento in cui sbarca nella Sala degli Arrivi, sa già chi è, cosa fare e dove andare. Impossibile non prenderla a cuore. Le api sono migliaia, tra di loro si chiamano sorelle e la loro costituzione conta un'unica legge: "accettare, obbedire, servire". Per Flora 717 e le sue compagne, il rispetto di questa legge è un compito a cui prestarsi senza avanzare pretesti. Ogni giorno le api esploratrici escono a bottinare con intrepida operosità, impollinano i fiori e perlustrano le vicinanze dell'alveare, per poi tornare nei propri esagoni di cera, cariche di nettare con cui nutrire le larve,  leste e impeccabili nell'adempimento del loro compito: proteggere, nutrire, fortificare l'alveare.
Costanti e pertinaci sono anche perfettamente organizzate: dalle caste più misere a quelle più in vista incontriamo le spazzine flora, le bottinatrici stoppione, le guardiane cardo, le convolvolo, le salvastrella,  le sacerdotesse salvia, e infine al centro di tutto, la Santa Madre, sacra quanto la Mente dell'alveare, alias la regina, dal primato indiscutibile, amata e riverita dalle api e da cui loro sono riamate. 

Quest'idillio dorato è presto inquinato dalla minaccia sovversiva che ogni sistema rigido e composto ha incluso nel proprio pacchetto. Flora 717 è una spazzina ma qualcosa la distingue dalle altre operaie della sua casta. È intelligente e sa parlare, come le api delle caste più elevate, particolarità che le consentiranno di ascendere al ruolo di ape bottinatrice, grazie al coraggio e alla temerarietà dimostrati, di avere accesso alle stanze della regina, di annusare i pannelli della biblioteca dove sono custodite le sei Storie degli Odori, di esibirsi nella complessa danza con cui le api si comunicano le informazioni sul territorio, di ottenere infine la stima delle sorelle. Tutto regolare, fintantoché Flora non scopre di avere lei stessa un segreto da custodire.

Dentro Bees c'è un alveare di vivacità e colori, c'è il ronzio flagrante delle idee nuove, delle storie che sanno stupire e tenere compagnia e soprattutto ci sono le api, che lo confesso, mi ispirano un'enorme simpatia. Profeticamente Einstein disse che l'uomo non resisterebbe neanche quattro anni se improvvisamente dovessero estinguersi le api. Il miele, la propoli, la cera d'api e la pappa reale non esisterebbero più, e nemmeno il polline viaggerebbe più da un fiore all'altro. Qualcuno ha dedicato un romanzo intero a questo popolo di laboriose benefattrici, un libro che potrebbero adorare persino quelli che non sono dei veri e propri bee lovers


“Era schiacciata nella celletta e l'aria era calda e fetida. Tutte le articolazioni del corpo le bruciavano per via di quel frenetico agitarsi contro le pareti; aveva la testa premuta contro il torace e le zampe contratte dai crampi, ma i suoi sforzi non erano stati vani: una parete stava per cedere. Scalciò con tutte le sue forze e sentì che qualcosa si incrinava e si spezzava. Spinse, strappò e morsicò, fino ad aprire un varco che comunicava con l'aria fresca.”

giovedì 21 maggio 2015

Note sui libri


Ci sono sogni che nascono dai libri, silenziosamente prendono vita negli spazi tra le parole e delle parole si alimentano, si nutrono. 
Ci sono vite parallele che procedono segretamente nei libri, fatte di sensazioni più complesse e profonde di quelle concesse dalla realtà. 
Le storie che si leggono nei libri contengono significati che la realtà contiene ma non spiega o non vuole spiegare. 
Dai libri si imparano tante, tantissime cose, certe volte più di quelle che la nostra sensibilità e la nostra fantasia sono in grado di abbracciare. Storie che fanno bene e storie che fanno male.  Non so quando leggere è diventato così fondamentale per me. Non ricordo qual è stato il primo libro che ho letto. Ho avuto un imprinting decisivo con i libri di Michael Hoeye, libri d'avventura con un topo per protagonista, Hermux Tantamoq ( niente a che fare con Geronimo Stilton ). Ma più di tutti deve essere stato Harry Potter a iniziarmi. Sono stata fortunata a leggerlo mentre crescevo. Da bambina l'ho amato come da ragazza, come lo amo ora, che sono un po' più adulta. 
Clive Cussler mi ha cambiata a 12 anni, Zafon mi ha conquistata quando ne avevo 16, Murakami quando ne ho avuti 18. Amori che durano ancora adesso, forse soltanto un po’ alleggeriti dal tempo. Qui e lì qualche amorazzo che non è durato, come quello per i bestseller di Dan Brown e altri autori con cui non ho avuto che una singola e breve conoscenza. 

Ora per esempio sto rileggendo L'ombra del vento, ed è un'esperienza completamente diversa rispetto a quando lo lessi per la prima volta, più o meno otto anni fa. In mezzo sono passati tanti libri, tra cui classici e capolavori. Sono più propensa a criticare che ad apprezzare di quanto lo ero allora. E questo significa anche che è diventato molto più difficile trovare qualcosa che mi appassioni senza stancarmi. Ho interrotto la lettura de I miserabili, non perché non fosse abbastanza appassionante, anzi tutto il contrario, è bellissimo, ma perché dopo seicento pagine (solo del primo volume) di un certo tipo di letteratura si sente la necessità di fermarsi un attimo e recuperare le energie (un po’ iperbolico forse, ma è quello che in fondo sto facendo.)


I libri, loro non ti abbandonano mai. Tu sicuramente li abbandoni di tanto in tanto, i libri, magari li tradisci anche, loro invece non ti voltano mai le spalle: nel più completo silenzio e con immensa umiltà, loro ti aspettano sullo scaffale.
(Amos Oz)


mercoledì 20 maggio 2015

Il ritorno del giovane principe - A.G. Roemmers

Non scrivo sul blog da un bel po’. Oggi torno qui con una favola che parla di ritorni (niente di premeditato), di crescita, di aspettative, di illusioni, di cambiamenti. Niente di strano che un viaggio particolare abbia un protagonista altrettanto speciale. Il piccolo principe torna un po’ cresciuto, per ricordarci quanto ci era mancato, quanto l'abbiamo adorato la prima volta.
Libro delicato, breve come una favola, eppure umanamente denso e significativo, Il ritorno del giovane principe, è un dolce richiamo a uno dei libri più amati di ogni tempo. Malinconico come il piccolo principe a cui si ispira, ma ricchissimo di precetti, a cui concedere più di una lettura, e di colorati e splendidi disegni.
 Capitolo 15
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Ero totalmente assorto nel piacere della mia guida sportiva lungo la sinuosa strada che costeggiava la riva di un ampio lago, in mezzo a un bosco di pini. Ogni volta che cambiavo marcia, il ronzio del motore mi percorreva la schiena come un brivido. In quel momento così speciale, per un amante delle auto e della velocità come me, l'improvvisa interruzione del ragazzo mi si rovesciò addosso come una nevicata in primavera.


«Prima mi parlavi della gente seria», mi ricordò. «Cos'altro sai di loro?»

«Qualche altra cosetta», bofonchiai, rassegnato al pensiero che sarebbe stato del tutto inutile spiegargli che aveva appena mandato in frantumi un'incomparabile sinfonia meccanica.
«In fin dei conti, c'è mancato poco che anch'io mi trasformassi in uno stimato membro di questa specie.»

«E perché non è successo?» Come al solito, le domande del giovane principe erano sempre dirette al nocciolo della questione.

«Osservando la gente seria che mi circondava, tutte persone rispettabili e di successo, mi sono accorto che nessuno di loro era davvero felice.»

«Non mi verrai a dire che l'ordine e la disciplina li rendevano infelici, vero?» azzardò in tono perplesso.

«No» , risposi. «Il fatto è che le persone serie che amano tanto l'ordine, il più delle volte detestano le sorprese e qualsiasi cosa sfugga al loro controllo. Ma più controllo esercitano, meno riescono a godere. Amano vivere in un mondo senza stupore né meraviglia. I cambiamenti, per quanto piccoli, scatenano la loro rabbia o preoccupazione, e la nostra instabile realtà nasconde innumerevoli occasioni per entrambe le cose.»

«Questo mi ricorda un lampionaio che non riusciva a tradire la sua consegna», spiegò il giovane principe. «Quando il pianeta su cui viveva si era messo a girare più in fretta, il suo lavoro era diventato infernale.»

«Be’», proseguii, «queste persone vivono la loro vita come il loro necrologio, in stile altisonante ed effimero, anche se magari non fanno altro che collezionare medaglie e diplomi. Nessuno ha il coraggio di aggiungere una nota al piede con scritto: “E nonostante tutto, non è stato felice”. Il cielo scrive sulla sua volta l'epitaffio che meritano con le stelle cadenti.»

«Nessuno dovrebbe inorgoglirsi di essere una stella cadente», fece notare lui.

«No, in effetti no», concordai. E poi aggiunsi: «Sono come piccole fiammelle che si spengono rapidamente, come lucciole nell'abisso del tempo.»

«Poi ci sono degli altri», proseguii nel mio ragionamento, «che, quando affrontano la realtà, sono incapaci di rinunciare ai propri ideali (da persone serie quali sono) e cercano di proteggerli con tale veemenza che finiscono per innalzare un muro attorno a sé che serve solo ad asfissiare il proprio spirito. Alle volte questo muro è costruito in maniera così perfetta che non riescono più a trovare neppure una fessura attraverso cui rientrare. E così rimangono chiusi fuori, come marionette senza fili, come fantasmi che non sanno chi sono, da dove vengono, né dove vanno. Il loro mondo vaga senza proposito e con il passare del tempo diventa freddo come una cometa.»

«Non voglio essere una cometa» precisò il giovane principe, prima di chiedere, «Che cos'è un fantasma?».

«Un fantasma è un'immagine priva di contenuto, un'ombra, un'apparenza carente di materia.» Quindi aggiunsi: «C'è gente convinta che i fantasmi non esistano. Io invece credo di sì, e che siano anzi molto numerosi, sparsi un po’ dappertutto. Per me, i fantasmi sono le persone che non hanno cuore.»

«Non voglio essere neanche un fantasma», rifletté il giovane principe, sempre più consapevole di quanto sia difficile crescere.

«In questo caso, non tradire i tuoi desideri, e non seppellirli dentro di te finché non saranno morti di stenti. Impara a combinare la realtà con le tue aspirazioni. Da’ il meglio di te, in tutto ciò che fai, come riflesso del tuo spirito, e offri il meglio di te ai tuoi simili, come riflesso del tuo amore. Vedrai che il mondo diventerà come quegli specchi deformanti, che riflettono e restituiscono ingigantito tutto ciò che darai senza un secondo fine. Perché l'unico modo di circondarti d'amore è offrirlo agli altri. A un certo punto, ti troverai a dover scegliere tra un mondo che gira solo intorno a te, come nell'infanzia e un mondo aperto agli altri, quello della maturità. Sarà allora che dovrai spogliarti dei tuoi capricci, delle norme rigide e dell'egolatria per crescere nella convinzione di difendere principi più nobili. Ama te stesso e riuscirai ad amare gli altri. Ama i tuoi sogni e portai usarli per costruire un mondo caldo e bello, pieno di sorrisi e di abbracci. Sarà un mondo in cui avrai voglia di vivere, che girerà su un'orbita multicolore. Se ci credi davvero e lo costruirai giorno dopo giorno in ogni tuo gesto, quel mondo diventerà possibile. E sarà la ricompensa delle tue buone azioni, perché non ho mai visto nessuno godere pienamente di una felicità immeritata. Solo le persone che amano davvero sono come stelle, e la loro luce continua a brillare su di noi anche dopo che se ne sono andate. »


Quando parlò, sentii l'emozione e il fervore vibrare nelle sue parole: «Quando morirò, voglio diventare una stella. Insegnami a vivere in modo che possa diventare una stella». Poi tenendo abbracciato il suo cagnolino, appoggiò la testa al finestrino.

«Non posso insegnarti una formula precisa», risposi in tono dolce. «Non sono un maestro di stelle. Posso offrirti soltanto le cose che ho imparato nella mia vita, una manciata di verità che, come tutte le verità, si possono trasmettere solo attraverso l'amore. Ma tu, come tutti noi, serbi dentro di te la capacità di amare, e tanto basta, non ti serve altro. Quando hai qualche dubbio, cerca dentro di te, e se avrai abbastanza pazienza, troverai sempre la risposta giusta.»

Ma ormai non mi ascoltava più. Forse aveva scoperto che nella terra dei sogni tutti possiamo essere principi e stelle.


domenica 29 marzo 2015

Il miniaturista - Jessie Burton


“Il funerale dovrebbe essere una cosa tranquilla, perché chi finisce nella bara non aveva amici. Ma le parole, ad Amsterdam, sono come l'acqua, intasano le orecchie e da lì comincia il marcio, e l'angolo orientale della chiesa è pieno. La donna osserva la scena al riparo degli stalli del coro, mentre membri delle corporazioni con le mogli si avvicinano alla tomba aperta come formiche al miele. Li raggiungono poco dopo impiegati della VOC e capitani di nave, reggenti, fabbricanti di dolci e infine lui, con il solito cappello a tesa larga in testa. La donna cerca di compatirlo. La pietà, a differenza dell'odio può essere chiusa in una cassa e messa da parte.”
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Nella Oortman è davanti al suo futuro. A separarli soltanto una porta e i segreti celati aldilà di essa, cose che lei non immagina neanche (e neanche noi), ansiosa com'è di essere accolta nella vita dell'uomo che ha appena sposato, felice che la sua esistenza da ragazza nubile si trasformi finalmente in un'esistenza da donna. Davanti a questa porta ci siamo anche noi lettori, già attaccati al destino di Nella dal momento stesso in cui ha tirato il battente a forma di delfino, trasportati da una corrente rapida di parole nel ritmo nevrotico delle frasi al presente. Quello che succede dopo, quando la porta si apre, è un turbinio di eventi che trascinano Nella molto lontano dalla vita che aveva immaginato per sé stessa, ma al tempo stesso, ravvivano la sua curiosità, mettono alla prova il suo coraggio, risvegliano le sue paure. 
Presto l'occupazione principale di Nella, oltre a cercare di sbrogliare l'intricata matassa di eventi disorientanti, diventerà arredare una casa in miniatura, con delle copie minuscole ma perfette di tutti gli abitanti della casa che riproduce: Nella, la nostra compatita protagonista, il marito sfuggente Johannes, la cognata indisponente Marin, i servi astuti Otto e Cornelia, e Dhana e Rezeki, i cani fedeli. Per farlo Nella si rivolgerà al miniaturista, figura ombrosa ed evanescente, che nel libro non sembra essere niente più che un nome sulle Pagine di Smit, un registro di tutti gli artigiani ed esercizi della città. Nella e il miniaturista non si incontrano mai, se non nello scambio reciproco di messaggi scritti, nell'inquietante identicità della vita custodita tra le mura della casa e le figurine plasmate dalle abili mani del miniaturista. 

Di accadimenti e colpi di scena, questo romanzo è pieno. Ciò che gli manca è quello che amo di più delle storie,  è quel piccolo dettaglio che trasforma eventi bizzarri in storie credibili, la potenza narrativa che filtra gli eccessi della fantasia e la rende compatibile con il reale, pur rimanendo esattamente il tipo di evasione favolistica che stiamo cercando, la storia che vogliamo sentirci raccontare.


mercoledì 18 febbraio 2015

Dio di illusioni - Donna Tartt



Titolo originale: The secret history
 Pagine: 622 


Con i libri belli è un bel problema. Nel senso che quello che vorrei dire su di loro mi appare sempre troppo superfluo, e forse non è nemmeno una questione di impressioni soggettive, semplicemente è superfluo. Ultimamente mi capita di finire un libro e di ricamarci sopra un sacco di frasi che cominciano con un però. "Però si sarebbe potuto concludere in un altro modo", "Però non mi è piaciuto questo passaggio", però, però, però. Stavolta niente ma, niente però.

Un college, cinque ragazzi che si estraniano da tutti gli altri studenti, per frequentare un corso di greco, nel grande studio di un eccentrico professore. Nel loro piccolo mondo i cinque accolgono un nuovo studente, Richard Papen ai cui occhi, loro appaiono come creature leggendarie. Ne rimane infatti tanto ammaliato da assecondarne ogni capriccio, ogni sprazzo di follia, fino a che succede qualcosa che tramuta degli studenti atipici in gelidi assassini.

Alla fine non sapevo nemmeno che cosa pensare. Il primo, primissimo, impulso, appena girata l'ultima pagina, è stato quello di rileggere tutto dall'inizio. E l'ho anche fatto, per qualche pagina, per poi rendermi conto che era assurdo. Ma lasciare quei personaggi, quella storia, quello stile sembrava impossibile. La storia così tragica, o meglio, così tragicamente verosimile, dovrebbe imporre l'abbandono della lettura a qualsiasi lettore assennato, che si renda conto che quello che c'è scritto in questo romanzo, non ha niente di umano, eppure è così umanamente possibile. Cose peggiori di questa accadono sempre, ovunque, eppure fingiamo ancora di meravigliarci se siamo in grado di saltare senza problemi l'abisso che c'è tra il bene e il male, tra quello che ci è stato detto che è giusto fare e quello che siamo portati a fare. Esseri umani e non esserlo. 


Quello che accade, quando i protagonisti decidono di smettere ogni finzione, di trasformare in realtà quello che segretamente complottano, è indicibile, eppure sembra l'unica evoluzione possibile per la storia. Qualsiasi altra possibilità, che non sia così irreversibile, è preferibile per noi che leggiamo, ma impossibile per i protagonisti, che scelgono l'unica soluzione da cui non si può tornare indietro, la migliore per chi ha un cuore di ghiaccio, o per chi un cuore non ce l'ha proprio e non ha intenzione di lasciarsi scalfire da ogni ragionevole dubbio. Si deve procedere subito in fretta, senza curarsi del dopo.


Al dopo si lasciano sempre i sensi di colpa, ma qui per i sensi di colpa, non c'è tempo, non c'è spazio. C'è spazio soltanto per la prossima mossa, a cui bisogna pensare prima che diventi troppo tardi. Troppo tardi per i protagonisti è un tempo che non deve esistere, per loro c'è solo il futuro immediato, non il passato da infangare di rimorsi. Loro pensano a rimanere uniti, a proteggersi a vicenda, nonostante le innumerevoli crepe che minacciano di separarli, forse per sempre. Non esistono morti da piangere, rimorsi da accogliere nella coscienza, certo sono dispiaciuti, stanno male  “ma non così male da voler andare in prigione”. Loro sono quelli a cui è stata concessa l'appartenenza a un circolo esclusivo, eppure di esclusivo non hanno che la loro pretenziosa conoscenza del greco. Sono esseri normali, ciascuno con i suoi scheletri nell'armadio, eppure si esiliano da tutto e da tutti, lontani dalle logiche troppo comuni della vita universitaria, studenti come numeri. Si ritengono abbastanza superiori da tentare di possedere la bellezza della conoscenza, quella che è oltre i nostri occhi, oltre le nostre coscienze. Quella a cui si può arrivare soltanto liberandosi di se stessi, dei propri corpi ingombranti. Sono pronti a votarsi a un'illusione, pronti a tutto perché questa soverchi la realtà, le si sostituisca in un pericoloso smarrimento dei sensi.
Quando lo si legge nel libro, la rivelazione fa l'effetto di un pugno nello stomaco. 

 (Segue spoiler)
«Non so da dove cominciare.» Si fermò e bevve. «Ti ricordi quest'autunno, alla lezione di Julian, quando studiammo ciò che Platone chiama follia iniziatica? Bakcheia? Estasi dionisiaca?»
«Sì» risposi, impaziente. Era tipico di Henry tirar fuori un simile argomento proprio ora. 
«Be', decidemmo di provare a raggiungerla.»
Per un attimo pensai di non aver capito bene. «Cosa?» chiesi.

Esattamente: cosa? Ma è proprio questo l'evento scatenante. Ci provano diverse volte, si prendono seriamente, sono sempre più vicini all'obiettivo, ma devono fermarsi perché qualcosa, qualcuno li blocca. Il più ridanciano del gruppo, che non prende abbastanza seriamente la faccenda, deve essere escluso. Difficile da credere, ma questi attori dalle mille perfezioni, giovani, intelligenti, commettono un errore gravissimo. E tutto il resto del libro parla di loro che ne pagano le conseguenze.
Staccarsi dalla vicenda è impossibile. I personaggi hanno un fascino incredibile, ognuno illuminato dalle proprie peculiarità, che invece di renderli abietti e immorali, ne fanno tra i personaggi più interessanti di sempre. E Donna Tartt rende tutto ancora più grande e magnifico, con il linguaggio, pieno, ricco di sfumature, poetico a tratti, intrigante sempre.

“Il greco era ostico, e io ancora sotto gli effetti del bere: così mi ci ero applicato talmente a lungo che le lettere non mi parevano più tali, bensì qualcosa d'altro, indecifrabili orme d'uccello sulla sabbia. Fissavo fuori dalla finestra, in una sorta di trance, verso il prato con l'erba tagliata corta, simile a un velluto verde brillante risalente sino alle lussureggianti colline all'orizzonte, quando vidi in lontananza i gemelli, che planavano sul prato come una coppia di spettri.”


“La neve sulle montagne si stava sciogliendo e Bunny era già morto da molte settimane prima che arrivassimo a comprendere la gravità della nostra situazione. Era già morto da dieci giorni quando lo trovarono, sapete. Fu la più grande battuta della storia del Vermont - polizia dello Stato, FBI, persino un elicottero dell'esercito; il college chiuse, la fabbrica di colori ad Hampden serrò i battenti, la gente veniva dal New Hampshire, dal nord dello Stato di New York, addirittura da Boston.” 

lunedì 9 febbraio 2015

Il baco da seta - Robert Galbraith (o J.K Rowling)



Eccomi qua, per la prima volta, dopo tutti gli Harry Potter, dopo Il seggio vacante e Il richiamo del cuculo, a parlare dell'ultimo (grande) lavoro di una mente magica. Mi sembra quasi di conoscerla bene, questa scrittrice che da due libri a questa parte, si firma con pseudonimo, anche se tutti ormai sappiamo benissimo chi è; certo, non l'ho mai sentita parlare, non conosco il modo in cui ride, né, se e come gesticoli, ma mi sembra quasi di vederla, mentre scrive, nel luogo che ha predestinato alla scrittura e disseminato di fogli ricoperti di appunti, con la testa lievemente inclinata, concentrata a scrivere quello che probabilmente incanterà centinaia di persone. Il baco da seta, a incantare ci riesce pienamente.Il primo sbocco di questa nuova vena che pulsa di sangue di detective, aveva un nome strano che non evocava nulla se non l'eco ridondante di un orologio a cucù: Il richiamo del cuculo, si faceva leggere e anche velocemente. Come per l'esito di una magia assorbita dalle pagine, anche stavolta si arriva alla fine senza rendersi conto che i segnali di chiusura si sono già infilati prepotentemente tra le pagine. 
«Anche se non gli piaceva il soprannome affibbiatogli da Anstis, "Mystic Bob", in quel momento Strike percepiva l'avvicinarsi di un pericolo, quasi come quando aveva previsto che il Viking stava per saltare in aria con loro dentro. La chiamavano intuizione, ma lui sapeva che si trattava piuttosto di riuscire a cogliere sottili segnali, di fare due più due a livello inconscio. Il ritratto dell'assassino stava emergendo dalla massa incoerente di indizi, ed era un'immagine terribile e spietata: una mente ossessiva e violenta, calcolatrice, geniale, ma profondamente disturbata».
Sembra quasi la formula di un libro di magia che insegni come fare un buon incantesimo di scrittura, basta che a pronunciarlo sia chi conosce il segreto della letteratura e non si cura di mostrarlo anche agli altri. Incuriosire il lettore, fare breccia nel suo cuore, con l'accattivante promessa di andare a caccia di un assatanato e folle omicida, sembra per la Rowling facile come bere un bicchier d'acqua, e per noi, lettori dal cuore fin troppo potter-labile, seguirla nella costruzione di una storia avvincente e inarrestabile, lo è altrettanto. Immediata, la connessione che si stabilisce sin da subito tra le chiare premesse della trama nelle prime pagine e le aspettative del lettore. In mezzo, a  fare da spartiacque, la narrazione fluida e lineare, senza pause, solo forse con qualche forzatura di troppo, e i dialoghi semplici e ritmici, che dicono tutta la verità su chi parla, senza lasciare niente nascosto,  o quasi, permettendoci di estrarre il contenuto di ogni personaggio dal bozzolo di mistero in cui è rinchiuso. 
L'ho cercato questo riferimento, non affatto casuale, perché i titoli dei romanzi sono sempre l'elemento che mi suscita più meraviglia, dato che ogni volta mi arrovello per cercarne il significato, a meno che non sia chiaramente spiattellato dall'autore. Qui invece ne è lento e graduale lo svelamento, perché direttamente collegato alla trama, al modo in cui muore la vittima, che finisce per diventare un bombyx mori, il titolo del suo stesso romanzo, un baco da seta. Riecheggia anche in questa, come in ogni sua produzione, la simpatia che l'autrice ha per il latino, (passi delle opere di Virgilio comparivano ne Il richiamo del cuculo), per la drammaturgia, per tutte quelle cose che si è presa la briga di inserire nel libro per noi, non solo per la scelta del Bombyx mori ma anche per le frasi in latino disseminate copiosamente nel libro e i frammenti di drammi inglesi, presi in prestito da Shakespeare, Webster, Marlowe, Kyd, Congreve e Jonson.

Ah, ah, ah! Tu ti intrappoli nel tuo stesso lavoro come un baco da seta.
John Webster, Il diavolo bianco.

Arrivata alla fine di questo libro, l'ho immaginata ancora, questa scrittrice inglese dalle mille idee straordinarie, seduta a comporre lentamente l'ultima parola, con un sorrisetto ironico sulla faccia, conscia di aver scritto l'ennesima, brillante, storia. 


I.
«Sarà meglio» mormorò la voce rauca all'altro capo della linea, «che sia morto qualcuno di grosso, Strike».
L'uomo alto, robusto e mal rasato sorrise tra sé, mentre camminava con passo pesante nel buio prima dell'alba, il telefono incollato all'orecchio.
«Più o meno».
«Ma sono le sei del mattino, porca puttana!»
«Le sei e mezza. Ma se t'interessa quello che ho in mano, devi venirtelo a prendere» disse Cormoran Strike. «Non sono lontano da te. «C'è un...»
«Come fai a sapere dove abito?» chiese la voce.
«Me l'hai detto tu» rispose Strike, soffocando uno sbadiglio. «Stai vendendo il tuo appartamento».
«Oh» fece l'altro, ammorbidito. «Hai buona memoria».
«C'è un bar aperto ventiquattr'ore su...»
«Fanculo. Passa dopo in ufficio...»
«Culpepper, stamattina ho un altro cliente, che mi paga meglio di te. Sono stato sveglio tutta la notte. Questa roba ti serve adesso, se hai intenzione di usarla».
Un gemito. Strike sentì frusciare le lenzuola.
«Spero che sia una bomba, cazzo».
«Smithfield Café, sulla Long Lane» disse Strike, prima di chiudere la comunicazione.

sabato 31 gennaio 2015

The strange library - Haruki Murakami




Editore: Harvill Secker

Pagine: 77
Prezzo: 16,50


Sinossi
Mentre torna a casa da scuola, il giovane protagonista di The strange library, si chiede come venissero riscosse le tasse nell'impero Ottomano. Va quindi in libreria per trovare qualche libro sull'argomento. Quando chiede informazioni gli viene detto di andare nella stanza 107. Qui, uno strano vecchietto dall'aria inquietante, costringe il ragazzo a leggere degli enormi tomi sull'impero Ottomano. Per leggerli però il ragazzo dovrà servirsi di una speciale stanza per la lettura che si trova alla fine di un lungo labirinto nei sotterranei della biblioteca. 


Ha l'intensità di un breve incubo molesto, questa nuova storia di Murakami. Se ne è infastiditi e insieme allettati, come succede spesso nei sogni, che ci portano dove non vogliamo ma non possiamo fare a meno di andare, ai limiti della nostra coscienza, negli spazi inesplorati durante il giorno, che inevitabilmente ci risucchiano quando siamo al buio, incoscienti e indifesi.


È difficile credere che qualcosa come quello che è raccontato in The strange library, possa accadere veramente, ma questo è il senso delle illusioni create da Murakami, il valore aggiunto della sua scrittura stravagante e onirica, la negazione di tutto ciò che è verosimile e reale, la percezione che le cose vere possano trovarsi solo alla fine di un sogno, dove non si arriva mai tutti interi, ma sempre a pezzi, confusi e stanchi come alla fine di tutti i viaggi che hanno come meta noi stessi, il fulcro della nostra mente popolata da mostriciattoli, il centro del nostro cuore abitato da paure indicibili e terrificanti. 

Allora risulta facile credere a tutto quello che ci viene propinato durante la lettura, persino a quello che sembra illogico ed eccepibile, si lascia fare tutto, a Murakami,  ci si lascia condurre dentro a un labirinto immenso, come se fosse uno scherzo che finirà presto, un gioco in cui possiamo inventare tutto, reinventare persino noi stessi ma ogni parola che diciamo o sentiamo giunge alle nostre orecchie come l'eco di una vita che abbiamo già vissuto e che non ricordiamo più, che ci appare quindi vicina ma allo stesso tempo distante. 

I dialoghi sono forse ciò che amo di più dello stile di Murakami, i personaggi dicono sempre qualcosa che non mi aspetto, qualcosa che deve sembrare ragionevole nella loro ottica, e che nel mondo reale non lo è, qualcosa che alla fine si è costretti ad accettare, un'allucinazione che soppianta la realtà fino a prenderne completamente il posto. L'effetto è uno straniamento totale dai comuni codici di comportamento che ci impongono di non dire cose strane, di fare discorsi che abbiano un senso pratico, di applicare alla realtà i filtri che usiamo ogni giorno e che ci permettono di interpretarla lucidamente. Murakami con le sue storie ci invita a deporre questi filtri e a costruirne di nuovi, un nuovo paio di occhiali che funzionino come una potente lente di ingrandimento, per scandagliare la realtà fino al punto in cui credevamo di non poterla più distinguere.

Lievemente più inquietante di qualsiasi altro suo lavoro, forse al pari finora solo di Dance dance dance e L'elefante scomparso e altri racconti, questo breve racconto è così murakamiano che potremmo attribuirne la paternità anche senza il suo nome scritto a caratteri cubitali sulla copertina.

Sono quattro stelle, e non cinque, per la brevità del racconto, per il carattere inquietante della storia e dei personaggi, per il finale che non mi ha proprio convinta. 

venerdì 30 gennaio 2015

Zia Antonia sapeva di menta - Andrea Vitali


Il mondo della zia Antonia si è improvvisamente ristretto. È diventato piccolo come una camera in una casa per anziani, dove zia Antonia trascorre quel che le resta della vecchiaia, sonnecchiando indolente sotto un manto di coperte e dentro una coltre di odori contrastanti, perché da qualche giorno nella stanza si sente un forte odore di aglio e il piacevole profumo di menta delle caramelle che la zia Antonia mastica in quantità non è più che una soffice nuvoletta, il segno di una bontà che sta svanendo nella scia pestifera di intenzioni più grandi e meschine.

Ma dove viene questo odore di aglio? È quello che cercheranno di capire suor Speranza e il dottor Aloisio Fastelli impiegando ogni mezzo per rinvenirne la fonte. Che sia una visita inaspettata da un parente redivivo dall'indifferenza, forse? Molto probabile perché la zia Antonia non è completamente viva né completamente morta eppure è, ora, più preziosa che mai.


“Invisibile ma presente.
Inconfondibile. Solo lui era così.
E sembrava impossibile che fosse lì dentro.
Eppure...
Entrato nella stanza, Ernesto Cervicati si era improvvisamente fermato davanti a quel muro fantasma, ma dotato di una sua solidità. Aveva annusato. Una, due, tre volte, tirando su discretamente con il naso.
Non c'era da sbagliarsi, era odore di aglio.”

_____

C'è un piccolo segreto nascosto tra queste pagine, si intravede a tratti, tra le righe, come il miraggio di una scoperta imbarazzante. Alcune cose sono così, non si possono dire a voce alta, devono rimanere confessioni sottovoce, confidenze non richieste ma ugualmente ambite da chi quei segreti non li conosce. Solo pochi sono i fortunati che ne vengono messi a parte, ma non è così scontato che si tratti di fortuna. Quando un'ultraottantenne che ha tutta l'aria di stare per morire decide di esaurire le sue ultime forze in un ostinato sciopero della fame per una segretissima quanto valida ragione, qualcuno è costretto a farsi carico a sua volta del segreto per custodirlo preziosamente.
Andrea Vitali sa tenere bene i fili del gioco, tenderli e allentarli al momento giusto, come un abile romanziere che conosca bene i mezzi per conquistarsi la stima e la fiducia del lettore.
Ho letto il libro con la solita paura del primo incontro, paura che da pesante come un fardello si è fatta sottile come una linea di fumo, già dopo le prime frasi. La storia ha il garbo delle cose semplici e la scrittura è ricca, brillante e ironica, senza tentennamenti o momenti di noia. Il tempo scorre veloce e la fine arriva presto, tanto presto da rendere subito indispensabile un altro Vitali, un'altra iniezione vitale di ironia e buonumore.

lunedì 26 gennaio 2015

La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo di Audrey Niffenegger


Sinossi: Clare e Henry si conoscono da sempre. Il destino ha fatto in modo che ciò accadesse, li ha legati per sempre oltre il tempo, oltre ogni barriera, oltre la terribile malattia di Henry che lo costringe a saltare da un'epoca all'altra, senza intenzionalità o preavviso, semplicemente perché è così che deve andare. È così che è stato deciso e trasmesso dentro di lui, nell'anomalia di un gene mutato. Eppure ciò non impedisce a Henry di riempire ogni attimo della vita di Clare, sia quando è presente che quando non c'è. 

Incipit: "Clare: È dura rimanere indietro. Aspetto Henry senza sapere dov'è e se sta bene. È dura essere quella che rimane. 
Mi tengo occupata così il tempo passa più veloce. 
Vado a dormire da sola e mi sveglio da sola. Faccio passeggiate. Lavoro fino a stancarmi. Osservo il vento giocare con la robaccia rimasta sepolta tutto l'inverno sotto la neve. Finché non ci si pensa sembra semplice. Perché l'assenza intensifica l'amore? 
Tanto tempo fa quando gli uomini andavano per mare, le donne li aspettavano sulla spiaggia, scrutavano l'orizzonte in cerca della piccola imbarcazione. Adesso io aspetto Henry. Lui scompare senza preavviso e involontariamente. Io lo aspetto. Ogni minuto d'attesa dura un anno, un'eternità. Ogni minuto scorre lento, trasparente come vetro. Attraverso ogni minuto vedo un'infinità di minuti in fila, in attesa. Perché se ne va dove io non posso seguirlo?"


La mia esperienza con questo libro ha prodotto decine di momenti in cui mi sentivo sopraffatta dalla potenza della scrittura della Niffenegger e dalla bellezza della storia, momenti in cui pensavo che sarebbe stato difficile, qui sul blog, descrivere esattamente quanto mi è piaciuto questo romanzo, il misto di trepidante esultanza e di triste dolcezza, la sensazione che il tuo cuore stia per essere svuotato e poi riempito di nuovo con emozioni più dense e pesanti. Ci si sente inermi e spezzati a sapere che il tempo è solo un'infinita collezione di eventi che non possono essere evitati, ma solo rivissuti o riguardati, senza poter fare assolutamente nulla per cambiare delle cose che hanno già deciso dove andare, e tu andrai con loro.

giovedì 4 dicembre 2014

La società letteraria di Sella di Lepre - Pasi Ilmari Jääskeläinen


Se avete intenzione di leggere questo libro, se l'avete messo nella wishlist, se l'avete già comprato e vi accingete a leggerlo, allora prendete tutte le vostre aspettative a proposito, e mettetele da parte perché nulla di quello che vi aspettate da questo libro si avvicina minimamente al suo reale contenuto. Ok, è vero c'è la società letteraria del titolo...è questo di cui parla il libro ma di una società così strana di sicuro non avete mai sentito parlare e quando conoscerete le regole del Gioco, rimarrete a bocca aperta. Preparatevi a stranezze e imprevisti alla Murakami way, pagine infestate da nani, fate, ondine che disturberanno la vostra lettura quanto più cercherete di capirci qualcosa.

Incipit

"Quando un assassino di nome Raskol'nikov venne ucciso in mezzo alla strada sotto i suoi occhi la lettrice dapprima rimase sbalordita e poi irritata. A colpirlo al cuore fu Sonja, prostituta dall'animo puro. Successe nel mezzo di un tema sul classico di Dostoevskij.
La lettrice si chiamava Ella Amanda Milana, Ventisei anni, splendide labbra carnose e un problema alle ovaie."

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Sarà un post un po' diverso dal solito, più breve prima di tutto, e magari anche un po' cattivo, dato che non sono clemente con i libri che non mi piacciono. Può essere che sia io a non averci capito nulla, o magari è stato il fatto di averlo letto dopo Stoner a crearmi qualche problema di immedesimazione, oppure qualche strana legge per cui i libri che compro con più entusiasmo sono anche quelli che mi piacciono di meno.
Durante la lettura ho alternato il disperato tentativo di lasciarmi trasportare al desiderio incoercibile di attuare una defenestrazione violenta di questoammassodipagineslashsprecodicarta. Non nego che ci siano degli ottimi spunti, tutti però abilmente assassinati:
- libri che mutano: l'idea dell'esistenza di alcune copie di libri famosi con un finale diverso rispetto all'originale è interessante ma attribuire questa anomalia a un fungo o muffa, è assurdo.
- la società letteraria: leggere un libro su una società letteraria per un lettore amante dei libri è come partecipare a une festa, una festa da cui però si può uscire anche estremamente delusi. Ma poi una società in cui raccontarsi i segreti è definito colare? 

pag. 176
"Per quanto mi riguarda possiamo anche iniziare"  disse Talvimaa "fammi colare".

La prima volta che il termine è comparso ho pensato a uno sbaglio, a un errore di traduzione. Poi ho letto lo stesso termine almeno altre venti volte, e ogni dubbio si è dissipato. In questa esclusivissima società letteraria non si dice raccontare, si dice colare. 

Altra cosa che ho odiato: la stranezza della storia e dei dialoghi con evidenti risonanze murakamiane. 

Ho amato invece la storia di Oskar, che compare come un fantasma nei racconti dei membri della società e regala alla storia un pizzico di quell'allure magica a cui essa disperatamente aspira. Avrei dedicato più pagine alla caratterizzazione di questo personaggio che a molti altri dettagli almeno per me inutili. Forse allora il libro mi sarebbe piaciuto di più, scevro da tutti questi particolarismi che lo rendono difficile da digerire e amare, senza questo stile nevrotico e immaginoso fatto di frasi che si rincorrono a un ritmo sfrenato e levano ogni sacralità all'arte del racconto, che è fatto di tempi, di ritmi, di punti messi al posto giusto.

Poi la fine. L'autore ci congeda così:
"Mie care creature, a volte assistiamo a fatti miracolosi, raggiungiamo luoghi che non avremmo nemmeno potuto sognare. Solo colui che non ha mai imparato niente crede di poter conservare in eterno ciò che trovato."

Una bella frase che però mi sembra non c'entri niente col resto. 
Stelle da dare, solo due, e neanche intere. 

martedì 25 novembre 2014

Stoner - John Williams


È difficile ammetterlo ma scrivere recensioni, o meglio dei commenti su un libro, è qualcosa di molto simile a una sfida. Quando te ne accorgi, sei già entrato in competizione con l'opera, stai già cercando migliaia di parole ancora più speciali di quelle che ti hanno fatto tremolare l'anima, e sul cui significato complessivo ancora ti interroghi.  Ci sono casi però in cui resterai senza parole da dire, senza pensieri da pensare, solo con i tuoi brividi e con una specie di fredda nostalgia a inebetirti il cervello. È quello che succede quando leggi un libro speciale, e di libri speciali ce ne sono pochi. Uno di questi è Stoner. È quel tipo di libro che leggi senza pensare al numero delle pagine, senza neanche vederle le pagine, senza vedere quei numeretti stampati sul margine che indicano quanto sei più o meno lontano dalla fine, dal significato profondo del libro. È strano perché sensazioni del genere solitamente capitano con i fantasy o con i libri che parlano di cose che non c'entrano nulla con la realtà. Stoner, invece, è reale. C'è almeno un personaggio nel libro con cui possiamo identificarci completamente. È un libro con una trama semplice, pur non essendo un libro che si dimentica, eppure vorremo rileggerlo sempre un'altra volta. Su di lui The New Yorker : "Il più bel romanzo americano che non avete ancora letto." Ed è vero, è tra i romanzi più belli che non avete ancora letto, il romanzo che state cercando, un romanzo che parla di tutti, che parla dell'uomo.

Stoner nasce in una famiglia di contadini. Quando raggiunge l'età, viene spinto dal padre a iscriversi alla facoltà di agraria. Si trasferisce a Columbia dove studia agraria, svolge mansione umilianti per potersi permettere l'alloggio presso dei lontani parenti dei suoi genitori. L'incontro con la letteratura inglese, insegnata dal professore Archer Sloane, sarà il primo vero motivo di turbamento per Stoner, il suo primo vero interesse. È qui che inizia veramente la storia, e anche la vita di Stoner, perché forse si può dire che la vita di un uomo comincia veramente solo quando egli incontra le sue passioni. E la passione di Stoner è tanto forte da riverberarsi nei suoi occhi e consentire ad Archer Sloane, professore di letteratura inglese che Stoner ammira, di cogliere quella fiamma e in base a essa di predirgli il suo destino. Stoner diventerà un professore. 
E così assistiamo al compimento di questo destino, agli eventi che ne increspano il tranquillo dispiegarsi, mentre Stoner avanza passo dopo passo, tra quelle che sono le sue conquiste ma anche le sue sfortune, armi a doppio taglio. Vorremmo urlare a Stoner i nostri consigli, perché dopo le prime cento pagine, ci sembra così naturale leggere di lui, che crederemmo quasi di potergli camminare accanto, che le orme impresse accanto alle sue nelle neve non siano altro che le nostre. Ma in fondo non possiamo fare niente. È la normalissima vita di un uomo quella che ci fa sobbalzare eppure vi cogliamo incessantemente, in ogni evento, piccolo o grande, una strana aura di mistero, da cui sorgono infinite domande. Che cosa turba Archer Sloane? Cosa induce Edith a nascondersi dentro se stessa, cosa impedisce a Stoner e a Edith di amarsi? Che rapporto c'è tra il professor Lomax e lo studente Charles Walker che li accomuna aldilà del loro corpo martoriato? Potrete solo immaginare delle risposte, perché niente viene spiegato, approfondito, scandagliato. Eppure è nascosto abilmentre tra le righe, neanche tanto distante dal significato superficiale, da impedirci di coglierlo. E quando lo vediamo, ne siamo sopraffatti, ammaliati, incantati, complici le parole scelte, i discorsi, le descrizioni, tutti frutti della scrittura meravigliosa di John Williams. 
Stoner è un libro che non potrete dimenticare, né subito dopo dopo averlo letto, né mai. 
Ci sono tantissime frasi bellissime che vorrei riportare qui, ma rovinerei la magia di leggerle per la prima volta nel contesto del libro, quindi ne scriverò solo due. 
La prima è questa:
Pag.226
"Quando era giovanissimo, Stoner pensava che l'amore fosse uno stato assoluto dell'essere a cui un uomo, se fortunato, poteva avere il privilegio di accedere. Durante la maturità, l'aveva invece liquidato come il paradiso di una falsa religione, da contemplare con scettica ironia, soave e navigato disprezzo, e vergognosa nostalgia. Arrivato alla mezza età, cominciava a capire che non era né un'illusione né uno stato di grazia: lo vedeva come una parte del divenire umano, una condizione inventata e modificata momento per momento, e giorno dopo giorno, dalla volontà, dall'intelligenza, e dal cuore."


Pag.39: "Tu credi che ci sia qualcosa qui, che va trovato. Nel mondo reale scopriresti subito la verità. Anche tu sei votato al fallimento. Ma anziché combattere il mondo, ti lasceresti masticare e sputare via, per ritrovarti in terra a chiederti cos'è andato storto. Perché ti aspetti sempre che il mondo sia qualcosa che non è, qualcosa che non vuole essere."

martedì 18 novembre 2014

La felicità delle piccole cose - Caroline Vermalle


Titolo: La felicità delle piccole cose
Autore: Caroline Vermalle
Editore: Feltrinelli
Pagine: 218
Prezzo: 15.00

Incipit
A Parigi la neve cadeva sulle rive della Senna, e due giovani donne osservavano i fiocchi volteggiare nell'aria. Il vetro freddo della finestra all'ultimo piano di un palazzo sull'Ile Saint-Louis era appannato in due punti. Su uno era stampato il bacio di Pétronille, venticinque anni. I boccoli castani le arrivavano alle spalle, e si tirava continuamente un lembo del cardigan che le disegnava le forme. L'altro punto appannato tremolava a ogni sospiro della sorella maggiore di Pétronille, Dorothée. Aveva trentun anni, era bionda e slanciata e i luminosi occhi azzurri esprimevano determinazione."

______

A Parigi nevica, come non nevica da tanti, troppi anni. I fiocchi di neve volteggiano nella tempesta, insieme ai sogni perduti della gente. La felicità delle piccole cose per chi non ha la voglia o il coraggio di afferrarle, si scioglie come si scioglie la neve.
Eppure la vita non si arrende, continuamente ci pone di fronte a nuove sfide come davanti a uno specchio in cui siamo costretti a osservare noi stessi, a rintracciare la nostra vera essenza in quello che stentiamo a riconoscere come il nostro riflesso.
E allora può succedere qualsiasi cosa. Può succedere di ritrovarsi perduti dentro a una tempesta senza sapere quale direzione prendere, perché all'improvviso sembra non esserci più nessuna direzione. Allora l'unica cosa da fare è partire alla ricerca della felicità in una caccia al tesoro in cui il tesoro è la mappa stessa, il percorso che tracciamo per trovarlo, incontrando tappa dopo tappa quelle piccole cose di cui avevamo dimenticato l'esistenza  e che alimentano la nostra felicità e rappresentano i nostri desideri più profondi.

È così che i protagonisti di questo romanzo diventano felici, mentre costruiscono pagina dopo pagina la loro personale mappa del tesoro. Alla fine del romanzo non sono più gli stessi. Frédéric e Pétronille sono l'esempio di come il fallimento rappresenti soltanto la fine delle nostre illusioni e l'inizio della vita vera, quella che fa per noi, quella in cui possiamo essere finalmente sinceri, con noi stessi e con gli altri. Fare spazio all'amore, per noi stessi e per gli altri.
Che sia una pasticceria o una galleria d'arte, le vie che sceglie la vita per spingerci a inseguire le nostre passioni sono infinite e tutte bellissime. Alla fine tutti i personaggi trovano quello di cui hanno bisogno, fanno pace col passato e si preparano a incontrare il futuro.
Nel frattempo noi lettori respiriamo l'aria parigina tra un viaggio in treno e una gita in barca, passando per Giverny e il Musee d'Orsay, inseguendo indizi misteriosi al seguito di altrettanto misteriosi personaggi, anime scalfite dalla vita che lottano per rimandare il momento dell'ultimo respiro. Ernest, Gilles, Bertrand, Maurice il fantomatico Fabrice Nile sono i personaggi buoni, i re di questa storia. È a loro che questa storia deve il lieto fine.

Lettura perfetta in questo periodo, se si cerca qualcosa di leggero e delicato. Soltanto penso che non fosse necessario quel colpo di scena finale, così ricercato e se vogliamo anche un po' incredibile. Alcuni aspetti della storia rimangono sospesi nel nulla a vantaggio di alcuni dettagli che sembrano non portare da nessuna parte. Ma in fondo è una storia semplice, una storia per quei giorni in cui non ci sia spazio per storie tristi e pesanti, ma soltanto per le piccole cose, quelle che rendono felici.

venerdì 14 novembre 2014

Il grande Gatsby - Francis Scott Fitzgerald



Titolo : Il grande Gatsby 
Autore : Francis Scott Fitzgerald
Pagine: 180
Prezzo: 15, 90
Edizione: Mattioli


"Nelle sere d'estate giungeva musica dalla casa del mio vicino. Nei suoi giardini azzurri uomini e ragazze andavano e venivano come falene tra i sussurri e lo champagne e le stelle."

Sinossi: Nell'estate del 1922 Nick Carraway si trasferisce a West Egg ( nome fittizio per indicare una città nella penisola di Long Island) dove fa conoscenza con Jay Gatsby un ricco e misterioso signore che vive nella colossale dimora accanto alla sua e che presto lo introduce nella sua esistenza sfarzosa e frenetica che sembra srotolarsi tra i numerosi quanto vani tentativi di ri/conquistare l'amore di Daisy Buchanan.
Incipit: Quando ero più giovane e più vulnerabile,mio padre mi diede un consiglio  a cui da allora non ho più smesso di pensare. "Ogni volta che ti vien voglia di criticare qualcuno" mi disse, "ricordati che non tutte le persone in questo mondo hanno avuto le possibilità che hai avuto tu."


Ricordo quando tutti parlavano del grande Gatsby. Soltanto un anno fa, dopo l'uscita del film di Baz Luhrmann, il grande Gatsby era ovunque. Ricordo anche il mio rifiuto categorico di andarlo a vedere, non prima di aver letto il libro almeno. Da qui la frenesia di averlo, leggerlo, conoscere quel finale che sembrava aver tradito le aspettative sognanti di tutti. La scelta su quale edizione comprare è stata ponderatissima e di edizioni ce ne sono veramente tante. Alla fine ho scelto quella di Mattioli, nella collana Originals, a cui sono super-affezionata, con la copertina che è un quadro commissionato dall'editore Scribner a  Francis Cugat: due occhioni tristi che dicono già tanto sulla storia.
Non vedevo l'ora di leggerlo. E poi l'ho letto, d'un soffio, nello spazio di una notte, come quelle che si consumano nelle feste organizzate da Gatsby, che pure non ne è mai coinvolto. Anzi si aggira solitario in casa e a volte scompare, immerso com'è in quella che è la sua condizione perpetua, una solitudine esistenziale fatta dei richiami di un fantomatico amore, l'unica cosa che davvero lo anima, compone le sue parole, guida i suoi gesti, comanda ogni attimo della sua vita. Non c'è niente che stimoli il suo interesse più di Daisy, del suo amore per Daisy, già conosciuta e amata anni prima. È un gioco tra presente e passato, ricostruire negli attimi che si vivono quello che è stato, che si è vissuto, e si ricorda come luminoso e splendido ma che luminoso e splendido non è. L'amore è distruttivo, certe volte, o sempre, quando è più forte perfino del proprio istinto di conservazione.

E Daisy? Non si capisce mai, almeno non l'ho capito io, cosa provi veramente, cosa ami, cosa odi. Sembra prendere la vita degli altri come un gioco in cui intromettersi e alterare ogni regola. Perché ogni gioco che si rispetti, ha delle regole, e lei le infrange tutte, con il suo fare talvolta leggiadro e sognante, talvolta isterico e incontrollato che finisce per essere tanto ammaliante quanto corruttivo.

Daisy:
"Mi piace vederti qui al mio tavolo, Nick. Mi ricordi una... Una rosa, una pura e una perfetta rosa. Non è vero?" Si voltò verso la signorina Baker per avere conferma. "Una rosa perfetta, non credi?"

Niente è perfetto. Perfette sono soltanto le circostanze che si incastrano nei contorni di questa storia, e la rendono reale, triste, sconvolgente. Non si può che assistere impotenti, desiderando di non aver voltato pagina e non averla letta la fine, poche pagine che disegnano un destino, e ti lasciano, forse troppo presto, a rimuginare, rimescolare ogni dettaglio.
Tutti gli altri personaggi restano un po' sullo sfondo. Pur essendo essenziali, scompaiono come scompare il chiarore delle stelle alla luce del sole.

Meraviglioso lo stile di Gatsby. Può risultare piatto, rigido, freddo a molti ma a me è piaciuto tantissimo, con tutte quelle frasi dolci e insieme tristi, sparpagliate per le pagine, che raccontano la verità del mondo.

"E mentre sedevo là, meditando su quel vecchio mondo sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby quando per la prima volta aveva scorto la luce verde all'estremità del molo di Daisy. Aveva fatto tanta strada per arrivare a quel prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non potergli più sfuggire. Non sapeva che se l'era già lasciato alle spalle, da qualche parte, nella vasta oscurità al di là della città, dove i campi scuri della repubblica si stendevano nella notte."



mercoledì 12 novembre 2014

Gli amori difficili - Italo Calvino


Titolo: Gli amori difficili
Autore: Italo Calvino 
Pagine: 230
Edizione: Oscar Mondadori

Sono tredici gli amori difficili raccolti in questo volume. Brevi racconti in cui trovano spazio le vite ordinarie di personaggi ordinari. Potremmo benissimo esserci noi tra le pagine, noi persone comuni, che pensiamo di non aver nulla da raccontare, noi che viaggiamo in treno, che leggiamo un libro sulla spiaggia, che guardiamo il mondo attraverso un paio di occhiali, fotografiamo, scriviamo una poesia. Potremmo essere noi i protagonisti di un amore difficile, quello spazio bianco e incolmabile tra una riga e l'altra, tra noi e il mondo, tra noi e un'altra persona, che tentiamo inutilmente di riempire di sentimenti e di emozioni senza far altro che concedere ulteriore tempo all'avidità dei pensieri inconfessati. 
È un amore difficile quello che impedisce al fante Tomagra del primo racconto di trovare il giusto approccio per comunicare con la vedova seduta accanto a lui, per trasmetterle anche solo una parte di sé, anche se non si conoscono, se non si sono mai visti. 
Un amore difficile quello della signora Isotta con sé stessa, costretta durante un bagno a mare a rimanere sola col suo corpo per aver perduto il costume in acqua , o di Amedeo con la villeggiante con cui si trova a condividere un pezzo di spiaggia. 
Un amore difficile separa e avvicina due sposi che non si incontrano mai per via dei turni di lavoro, che vorrebbero stare più tempo insieme ma non trovano il modo di comunicarsi il reciproco desiderio.
E così via, ogni amore difficile è un'avventura, che ci coglie impreparati in un momento qualsiasi della nostra vita, e rende astratti i nostri sforzi di comunicare con gli altri o con noi stessi e sempre più tangibile il bisogno di farlo. 

"Un paese incastrato in uno spacco tra quelle alture s'allungava tutto all'in su, le case una sopra l'altra, divise da vie a scale, acciottolate, fatte a conca nel mezzo perché vi scoli il rivolo dei rifiuti di mulo, e sulle soglie di tutte quelle case c'erano una quantità di donne, vecchie o invecchiate, e sui muretti, seduti in fila, una quantità di uomini, vecchi e giovani, tutti in camicia bianca, e in mezzo alle vie fatte a scala i bambini per terra che giocavano e qualche ragazzetto più grande disteso attraverso la strada con la guancia sul gradino, addormentato lì perché ci faceva un po' più fresco che dentro casa e meno odore, e dappertutto posate e in volo nuvole di mosche, e su ogni muro e su ogni festone di carta di giornale attorno alle cappe dei camini l'infinita picchiettatura degli escrementi di mosca, e a Usnelli venivano alla mente parole e parole, fitte, intrecciate le une sulle altre, senza spazio tra le righe, finché a poco a poco non si distinguevano più, era un groviglio da cui andavano sparendo anche i minimi occhielli bianchi e restava solo il nero, il nero più totale, impenetrabile, disperato come un urlo."

Tutte queste storie sono più che mai attuali, e non potranno che continuare a esserlo. Lo stile di Italo Calvino rende piacevole ogni lettura, senza enfatizzarla con parole inutili e superflue, raccontando solo il necessario. L'ordinario così diventa straordinario, ci conduce verso la fine che giunge inaspettata e ci lascia ancora un po' immaturi per comprendere il senso profondo di ogni storia.
Alla fine dei tredici racconti, si trovano per ultime due storie che compongono la seconda parte del libro, La vita difficile. 
La formica argentina e La nuvola di smog, fanno luce sulle piccole difficoltà della vita. Ho trovato queste due storie, più piatte e più difficili da leggere ma complessivamente piacevoli. 

Ho un debole per Calvino, per la sua scrittura semplice ma straordinariamente evocativa. Rileggerei mille volte le frasi che concludono ogni racconto e che sembrano contenere tutta la poesia risparmiata dal resto della storia, che arrivano come dolci proposte a voltare pagina, sulla prossima storia, sul prossimo racconto. 

"Alla stazione Termini, il primo a saltar giù dal vagone, fresco come una rosa, era lui. In mano stringeva il gettone. Nelle nicchie, tra i pilastri e gli stand, i telefoni grigi non attendevano che lui. Infilò il gettone, fece il numero, ascoltò col batticuore il trillo lontano, udì il - Pronto...- di Cinzia emergere ancora odoroso di sonno e di soffice tepore, e lui era già nella tensione dei loro giorni insieme, nell'affannosa guerra delle ore, e capiva che non sarebbe riuscito a dirle nulla di quel che era stata per lui la notte, che già sentiva svanire, come ogni perfetta notte d'amore, al dirompere crudele dei giorni."