sabato 31 gennaio 2015

The strange library - Haruki Murakami




Editore: Harvill Secker

Pagine: 77
Prezzo: 16,50


Sinossi
Mentre torna a casa da scuola, il giovane protagonista di The strange library, si chiede come venissero riscosse le tasse nell'impero Ottomano. Va quindi in libreria per trovare qualche libro sull'argomento. Quando chiede informazioni gli viene detto di andare nella stanza 107. Qui, uno strano vecchietto dall'aria inquietante, costringe il ragazzo a leggere degli enormi tomi sull'impero Ottomano. Per leggerli però il ragazzo dovrà servirsi di una speciale stanza per la lettura che si trova alla fine di un lungo labirinto nei sotterranei della biblioteca. 


Ha l'intensità di un breve incubo molesto, questa nuova storia di Murakami. Se ne è infastiditi e insieme allettati, come succede spesso nei sogni, che ci portano dove non vogliamo ma non possiamo fare a meno di andare, ai limiti della nostra coscienza, negli spazi inesplorati durante il giorno, che inevitabilmente ci risucchiano quando siamo al buio, incoscienti e indifesi.


È difficile credere che qualcosa come quello che è raccontato in The strange library, possa accadere veramente, ma questo è il senso delle illusioni create da Murakami, il valore aggiunto della sua scrittura stravagante e onirica, la negazione di tutto ciò che è verosimile e reale, la percezione che le cose vere possano trovarsi solo alla fine di un sogno, dove non si arriva mai tutti interi, ma sempre a pezzi, confusi e stanchi come alla fine di tutti i viaggi che hanno come meta noi stessi, il fulcro della nostra mente popolata da mostriciattoli, il centro del nostro cuore abitato da paure indicibili e terrificanti. 

Allora risulta facile credere a tutto quello che ci viene propinato durante la lettura, persino a quello che sembra illogico ed eccepibile, si lascia fare tutto, a Murakami,  ci si lascia condurre dentro a un labirinto immenso, come se fosse uno scherzo che finirà presto, un gioco in cui possiamo inventare tutto, reinventare persino noi stessi ma ogni parola che diciamo o sentiamo giunge alle nostre orecchie come l'eco di una vita che abbiamo già vissuto e che non ricordiamo più, che ci appare quindi vicina ma allo stesso tempo distante. 

I dialoghi sono forse ciò che amo di più dello stile di Murakami, i personaggi dicono sempre qualcosa che non mi aspetto, qualcosa che deve sembrare ragionevole nella loro ottica, e che nel mondo reale non lo è, qualcosa che alla fine si è costretti ad accettare, un'allucinazione che soppianta la realtà fino a prenderne completamente il posto. L'effetto è uno straniamento totale dai comuni codici di comportamento che ci impongono di non dire cose strane, di fare discorsi che abbiano un senso pratico, di applicare alla realtà i filtri che usiamo ogni giorno e che ci permettono di interpretarla lucidamente. Murakami con le sue storie ci invita a deporre questi filtri e a costruirne di nuovi, un nuovo paio di occhiali che funzionino come una potente lente di ingrandimento, per scandagliare la realtà fino al punto in cui credevamo di non poterla più distinguere.

Lievemente più inquietante di qualsiasi altro suo lavoro, forse al pari finora solo di Dance dance dance e L'elefante scomparso e altri racconti, questo breve racconto è così murakamiano che potremmo attribuirne la paternità anche senza il suo nome scritto a caratteri cubitali sulla copertina.

Sono quattro stelle, e non cinque, per la brevità del racconto, per il carattere inquietante della storia e dei personaggi, per il finale che non mi ha proprio convinta. 

venerdì 30 gennaio 2015

Zia Antonia sapeva di menta - Andrea Vitali


Il mondo della zia Antonia si è improvvisamente ristretto. È diventato piccolo come una camera in una casa per anziani, dove zia Antonia trascorre quel che le resta della vecchiaia, sonnecchiando indolente sotto un manto di coperte e dentro una coltre di odori contrastanti, perché da qualche giorno nella stanza si sente un forte odore di aglio e il piacevole profumo di menta delle caramelle che la zia Antonia mastica in quantità non è più che una soffice nuvoletta, il segno di una bontà che sta svanendo nella scia pestifera di intenzioni più grandi e meschine.

Ma dove viene questo odore di aglio? È quello che cercheranno di capire suor Speranza e il dottor Aloisio Fastelli impiegando ogni mezzo per rinvenirne la fonte. Che sia una visita inaspettata da un parente redivivo dall'indifferenza, forse? Molto probabile perché la zia Antonia non è completamente viva né completamente morta eppure è, ora, più preziosa che mai.


“Invisibile ma presente.
Inconfondibile. Solo lui era così.
E sembrava impossibile che fosse lì dentro.
Eppure...
Entrato nella stanza, Ernesto Cervicati si era improvvisamente fermato davanti a quel muro fantasma, ma dotato di una sua solidità. Aveva annusato. Una, due, tre volte, tirando su discretamente con il naso.
Non c'era da sbagliarsi, era odore di aglio.”

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C'è un piccolo segreto nascosto tra queste pagine, si intravede a tratti, tra le righe, come il miraggio di una scoperta imbarazzante. Alcune cose sono così, non si possono dire a voce alta, devono rimanere confessioni sottovoce, confidenze non richieste ma ugualmente ambite da chi quei segreti non li conosce. Solo pochi sono i fortunati che ne vengono messi a parte, ma non è così scontato che si tratti di fortuna. Quando un'ultraottantenne che ha tutta l'aria di stare per morire decide di esaurire le sue ultime forze in un ostinato sciopero della fame per una segretissima quanto valida ragione, qualcuno è costretto a farsi carico a sua volta del segreto per custodirlo preziosamente.
Andrea Vitali sa tenere bene i fili del gioco, tenderli e allentarli al momento giusto, come un abile romanziere che conosca bene i mezzi per conquistarsi la stima e la fiducia del lettore.
Ho letto il libro con la solita paura del primo incontro, paura che da pesante come un fardello si è fatta sottile come una linea di fumo, già dopo le prime frasi. La storia ha il garbo delle cose semplici e la scrittura è ricca, brillante e ironica, senza tentennamenti o momenti di noia. Il tempo scorre veloce e la fine arriva presto, tanto presto da rendere subito indispensabile un altro Vitali, un'altra iniezione vitale di ironia e buonumore.

lunedì 26 gennaio 2015

La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo di Audrey Niffenegger


Sinossi: Clare e Henry si conoscono da sempre. Il destino ha fatto in modo che ciò accadesse, li ha legati per sempre oltre il tempo, oltre ogni barriera, oltre la terribile malattia di Henry che lo costringe a saltare da un'epoca all'altra, senza intenzionalità o preavviso, semplicemente perché è così che deve andare. È così che è stato deciso e trasmesso dentro di lui, nell'anomalia di un gene mutato. Eppure ciò non impedisce a Henry di riempire ogni attimo della vita di Clare, sia quando è presente che quando non c'è. 

Incipit: "Clare: È dura rimanere indietro. Aspetto Henry senza sapere dov'è e se sta bene. È dura essere quella che rimane. 
Mi tengo occupata così il tempo passa più veloce. 
Vado a dormire da sola e mi sveglio da sola. Faccio passeggiate. Lavoro fino a stancarmi. Osservo il vento giocare con la robaccia rimasta sepolta tutto l'inverno sotto la neve. Finché non ci si pensa sembra semplice. Perché l'assenza intensifica l'amore? 
Tanto tempo fa quando gli uomini andavano per mare, le donne li aspettavano sulla spiaggia, scrutavano l'orizzonte in cerca della piccola imbarcazione. Adesso io aspetto Henry. Lui scompare senza preavviso e involontariamente. Io lo aspetto. Ogni minuto d'attesa dura un anno, un'eternità. Ogni minuto scorre lento, trasparente come vetro. Attraverso ogni minuto vedo un'infinità di minuti in fila, in attesa. Perché se ne va dove io non posso seguirlo?"


La mia esperienza con questo libro ha prodotto decine di momenti in cui mi sentivo sopraffatta dalla potenza della scrittura della Niffenegger e dalla bellezza della storia, momenti in cui pensavo che sarebbe stato difficile, qui sul blog, descrivere esattamente quanto mi è piaciuto questo romanzo, il misto di trepidante esultanza e di triste dolcezza, la sensazione che il tuo cuore stia per essere svuotato e poi riempito di nuovo con emozioni più dense e pesanti. Ci si sente inermi e spezzati a sapere che il tempo è solo un'infinita collezione di eventi che non possono essere evitati, ma solo rivissuti o riguardati, senza poter fare assolutamente nulla per cambiare delle cose che hanno già deciso dove andare, e tu andrai con loro.

giovedì 15 gennaio 2015

Jezabel - Irène Némirovsky


Gladys Eysenach ha ucciso un uomo.
Gladys Eysenach ha avuto molti amanti.
Gladys Eysenach ha una figlia che ama meno di quanto ami sé stessa.
Gladys Eysenach è bellissima.
Gladys Eysenach è una donna crudele.
Gladys Eysenach è il desiderio di ogni uomo.

Scritta nera su copertina rosa polvere con foto in bianco e nero: una donna di cui non si vede il volto perché ripresa di spalle, ma di cui si può intuire la bellezza. Jezabel.  Nome che pronunciato piano sembra un sussurro sinistro, l'eco dei gesti crudeli, delle intenzioni sconsiderate di Jezabel, personaggio dell'Athalie di Racine su cui è costruito il parallelismo del titolo.
 È il nome del libro che ho scelto stavolta e con cui mi avvicino alla produzione di Irène Némirovsky, scrittrice ebrea francese così prolifica che con i suoi libri ci si potrebbe costruire una piramide.
Eccolo tra gli scaffali pieni di possibili letture un libro di cui non avevo mai sentito parlare ma che con una trama intrigante mi prometteva di essere il libro che stavo cercando.

L'ho letto al rallentatore perché Jezabel è il  tipico libro che leggo dieci pagine per volta, a piccole dosi, come si somministrano le medicine amare. Proprio come per una medicina, sai che può farti bene e male allo stesso tempo. È un libro bello per certi versi, brutto per altri. A tratti ti piace, a tratti ti annoia. È un libro dalle prime e ultime volte, il libro che compri, leggi, riponi, dimentichi.

La Némirovsky ha preso una donna e ne ha fatto la più terribile delle creature, la più detestabile delle protagoniste. Non ha avuto pietà per lei, scrivendone, né ha fatto in modo che lettori ma soprattutto lettrici potessero provarne leggendone. E come si potrebbe? Chi proverebbe a immedesimarsi in un individuo che sembra aver venduto ogni pezzo di anima per una decina d'anni in meno, che non è capace di empatia né di qualsiasi altra forma di umana comprensione? Una donna, bella come tutte le donne vorrebbero essere, come la donna che tutti gli uomini desiderano al proprio fianco, così consapevole di esserlo da risultare pericolosa per sé stessa e per gli altri. Una donna reale, non soltanto una creazione letteraria. Jezabel, Gladys sono ritratti scanzonati di donne diverse che appartengono allo stesso prototipo di donna, ossessionata dalla propria bellezza, inebriata dal proprio potere di seduzione, conquistatrice quasi mai conquistata.
Scrittura scorrevole e leggibile, guarnita ogni tanto da frasi come questa:

"Gli anni erano passati per Gladys con la rapidità dei sogni. E a mano a mano che invecchiava, sembravano ancora più lievi, le parevano essere volati via ancora più in fretta."


"Una donna entrò nella gabbia degli imputati. Nonostante il pallore, nonostante l'aria stanca e stravolta, era ancora bella; solo le palpebre, di forma squisita, erano sciupate dalle lacrime e la bocca aveva una piega amara, ma la donna sembrava giovane. I capelli erano nascosti dal cappello nero.
Con un gesto automatico si portò le mani al collo, cercando, probabilmente, le perle del lungo sautoir che lo ornavano un tempo, ma il collo era nudo; le mani esitarono; con un movimento lento e desolato lei si torse le dita e dal pubblico trepidante che seguiva con lo sguardo ogni suo minimo gesto si levò un sordo mormorio."

Voto:
Tre stelline e mezzo per lo stile, per l'inizio che fa presumere che ci sia qualcosa da scoprire, per il finale che conferma questa ipotesi riscattando il romanzo dalla piattezza della storia.