mercoledì 8 marzo 2017

Le braci - Sandor Màrai

Era da tempo che non rimanevo così colpita da un libro. Il termine giusto è ipnotizzata. Dopo i primi capitoli, che mi avevano in parte scoraggiata dal proseguire la lettura, ecco la magia vera e propria, condensata in poche, ma indimenticabili pagine di assoluto splendore. Di capolavori ne esistono tanti, di grandi scrittori anche, ma forse sono davvero pochi quelli con la stessa capacità di Màrai di parlare dell'uomo, arrivando così in fondo al punto da imbastire, nel contesto di un breve romanzo, una vera e propria indagine psicologica. E se all'inizio, quando ho cominciato la lettura ancora non me ne rendevo perfettamente conto, alla fine ho compreso che quella che stavo leggendo, era letteratura nella sua forma più sublime, quella che al puro intento narrativo somma quello riflessivo e si pone come audace traslitterazione delle contraddizioni dell'animo umano, illuminandone gli angoli più nascosti, disotterrando istinti repressi e oscure controversie. Quello che dovrebbe essere un dialogo catartico tra due amici, si carica in realtà di molteplici significati, apparendo ora come lucida ricostruzione di un passato ormai irrecuperabile, ora come attesissima vendetta che riconosce il suo fallimento ancora prima di compiersi, ora come confessione di un animo indebolito e fiaccato dalla vecchiaia, che cerca invano un risarcimento alla sua stessa vanità. Ne risulta complessivamente un ritratto disarmante e lucido che rende suo malgrado più trasparente il mare torbido in cui versa il genere umano. Impossibile non riconoscersi in qualche tratto del monologo di Henrik, snocciolato con rigorosa sistematicità di fronte all'impassibile e muto Konrad. Sarebbe come non riconoscersi umani, o stentare a farlo per pudicizia, vinti solo dall'ineluttabilità che assume questo processo di riconoscimento quando si specchia nelle parole di un grande scrittore con l'abilità e la padronanza di linguaggio atti a sobbarcarsi tale compito. Impossibile non rimanerne incantati, non giungere alla fine con l'impressione di aver scoperto qualcosa di noi stessi, che prima avevamo solo sfiorato o arditamente sospettato. Come dice Henrik "l'uomo scopre il mondo un po' alla volta e poi muore." Marài mette due uomini diversi a confronto, prima legandoli strettamente col vincolo dell'amicizia, poi conducendoli verso un inevitabile  e drammatico distacco, che non assume mai i toni di un diverbio vero e proprio o di uno scontro fisico, ma ne irrigidisce i cuori lentamente, scorporandoli definitivamente da quel sodalizio a cui giovani e ingenui, avevano consacrato se stessi.


 “Esiste una cosa peggiore della morte e di qualsiasi sofferenza, la perdita della stima di sè. Quando si viene colpiti da una o più persone nella stima di sè, che costituisce la nostra dignità di uomini, la ferita è talmente profonda che neanche la morte può porre fine a questo tormento. È una questione di vanità, mi dirai. Di vanità, sì...e tuttavia la stima di sè è il contenuto più profondo della vita umana. Ecco perchè quelli che temono di perderla accettano qualsiasi soluzione, anche la più vigliacca - guardati intorno e vedrai che la vita è piena di mezze soluzioni come queste: l'uno si staccherà dall'essere che ama, l'altro rimarrà sul posto e si chiuderà nel silenzio, nella perenne attesa di una risposta...”

venerdì 27 gennaio 2017

Il labirinto degli spiriti - Carlos Ruiz Zafòn

Dovrei prefissare delle scadenze improrogabili per questo blog, delle date in cui scrivere un post, qualunque cosa accada, per non lasciar passare mesi senza scrivere nulla. Mi sembra che mi manchi il tempo per gestire bene il blog, o forse sono io che come al solito prendo le cose troppo seriamente, tanto più che al momento mi sento come in una sorta di limbo esistenziale in cui qualsiasi cosa faccia per dare una svolta positiva alla mia vita, pregiudica l'esistenza di un altro aspetto positivo. Una gioia esclude l'altra, insomma. E così avanzo e retrocedo in una giostra infinita. Posso sempre dare la colpa al processo di crescita, o meglio di invecchiamento, dato che non mi trovo più in quella fase della vita in cui si è giustificati per il fatto di non riuscire a rinunciare a niente. Mai come ora vedo la vita come un labirinto: c'è una sola strada per arrivare ma colui che attraversa il labirinto continua a perdersi, disorientato dalle colonne di siepi che tracciano infinite strade diverse. Non so se è un caso che io abbia partorito questa metafora dato l'ultimo libro letto, l'ultima fatica di Zafòn, che poi è quello di cui dovevo parlare in questo post. E quindi, eccomi di nuovo alle prese con le parole, per tentare di dare forma ai pensieri e a una descrizione che renda tutto il merito a questo libro.

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Il labirinto degli spiriti 

Esistono storie più intricate di un nodo gordiano, fatte di intrecci dai percorsi invisibili e apparentemente insolubili. Proprio come un abile intessitore, chi racconta queste storie, usa le parole come se fossero fili robusti per imbastire variopinte trame dagli infiniti risvolti. Zafòn pare un maestro in questo, forte, anche e soprattutto, di tutti quegli espedienti narrativi che sorreggono, come invisibili pilastri, l'impalcatura di una scrittura che nasconde maldestramente i suoi artifici e il segno di un costante labor limae, e che trasformerebbero persino la trama più insignificante in un romanzo di successo.
Il risultato è una storia da cui fluisce copioso un potente miscuglio di mistero, suspense e intrigo. È quel tipo di energia di cui i lettori, o i lettori come me, sono ghiotti.  Finisce che libri così, di 800 pagine, si fagocitano come niente. 
Il labirinto degl spiriti giunge a conclusione di un ciclo iniziato anni fa, con L'ombra del vento e il successivo Il gioco dell'angelo a fare da capostipiti nel circuito de Il cimitero dei libri dimenticati. Romanzi che, da adolescente invaghita non solo dei libri ma di tutto ciò che orbita loro intorno, ho amato e ora, da semi-adulta che non ha smesso di fare di pagine e inchiostro il centro gravitazionale della propria vita, amo, se possibile, ancora di più. 
Con una punta di amara nostalgia, che si riserva ai vecchi amici, si legge di un Daniel Sempere ormai adulto e di un Fermìn che non ha perso la sua verve umoristica e regala ancora parecchio colore alla penna di Zafòn, sempre imbrunita da atmosfere gotiche ed esemplarmente tenebrose. Una nebbia oscura avvolge quella che non è mai stata semplicemente uno sfondo, ma un'onnipresente comprimaria nelle rocambolesche avventure dei personaggi. Barcellona è meravigliosa, fosca e sublime nell'immaginazione di uno scrittore che sembra averne carpito i segreti più profondi e ce la rimanda in quella che probabilmente è la forma che più le si addice, coperta da nuvoloni neri e l'immancabile vaporosa oscurità che inghiotte e trasmuta fatti e persone. Su ogni cosa, ogni strada, ogni edificio, è impresso il marchio incofondibile di una maledizione di cui si tacciono le origini, ma di cui sono ben visibile le conseguenze deformanti.
Nel corteo di personaggi, via via presentati, di cui presto si perdono le tracce, o si dimenticano i nomi, spicca solitaria una figura femminile che nasce probabilmente da una genuina ammirazione per il femminino, per le risorse e la forza di cui le donne sono capaci, anche nei momenti più insospettabili. 
Alicia Gris è la carta vincente, l'affidataria di un'impresa che finora era toccata a un circolo esclusivo di protagonisti maschili, e in cui le donne figuravano come vittime o come semplici contenitori di amore e bellezza. Il corpo di Alicia, che pur di bellezza trasuda, è un ricettacolo di sfortuna che ne ha trasformato una buona parte in un groviglio di cicatrici e dolore, ma anche di intelligenza, impulsività e intraprendenza, che ne hanno fatto la prescelta per una missione dal grado di letalità elevatissimo. Alicia ha un unico indizio concreto da cui partire. Un libro prezioso e oscuro, di uno scrittore dimenticato, che la conduce, attraverso il Cimitero dei Libri dimenticati, in un gorgo di antichi e nuovi segreti di cui nessuno sospetterebbe l'orrore.
Come ogni libro che si rispetti, non manca di difetti, come la fine che giunge fin troppo in ritardo e il piccolo libro che chiude per sempre la saga, posto come ultimo capitolo, a fare da riassunto a quello che in ottocento pagine non si è riusciti a dire, o scene che se anche dipinte con l'intenzione della massima originalità, risultano fin troppo banali, reiteranti al punto da risultare distruttive per un romanzo che non ha bisogno di così tanti orpelli per mantenersi in piedi.
Ciò che non si dimentica dei libri di Zafòn è, come al solito, non tanto la trama, sebbene articolata e complessa, quanto la scrittura che ne anima ogni singolo dettaglio, di cui quasi ogni paragrafo riluce. Una forma personalissima che l'autore regala alle parole, componendo periodi magnifici che ne rappresentano, più di Barcellona, più dei personaggi travagliati, più dell'oblio che risucchia certe anime e della natura dei misteri svelati, l'inconfondibile marchio di fabbrica.

“Quella notte sognai di tornare nel Cimitero dei Libri Dimenticati. Avevo di nuovo dieci anni e mi svegliavo nella mia vecchia stanza avvertendo che la memoria del viso di mia madre mi aveva abbandonato. Nel modo in cui si sanno le cose nei sogni, sapevo che la colpa era mia e soltanto mia perchè non meritavo di ricordarlo e perchè non ero stato capace di renderle giustizia.”