Domenica tra i libri, libri nuovi che sono detentori di promesse. Io con le promesse sembra che abbia un problema, o forse il problema è con i libri, nel senso che, non riesco proprio a resistere alla promessa di una bella storia. Fuggo in libreria ogni volta che posso e torno sempre a casa con un peso di carta e storia nella borsa. Sfogliare pagine sta diventando un'attività magica, un rito che non mi stanco mai di ripetere perché mi porta sempre qualcosa di nuovo. Questa è magia, la magia dei libri, libri che sanno farti dimenticare, addormentare, svegliare, librare, giocare, ridere, piangere, spaventare.
Vorrei dare un appuntamento fisso ai libri, dedicare loro un giorno della settimana e mettere le prove qui sul blog. Le prove di quando vado in libreria e sprofondo per ore in un'altra dimensione in cui i pensieri hanno un peso minore, inferiore a quello di una piuma, dove i rumori e gli odori svaniscono come lontane cose effimere. Certi giorni si ha bisogno di staccarsi un po' da questo mondo. Questi giorni è meglio scappare in libreria. Quindi ecco cosa intendo: Domeniche tra i libri. Questa è la prima e questo è il mio bottino.
domenica 28 settembre 2014
venerdì 26 settembre 2014
La piramide di fango - Andrea Camilleri
L'esplodere fragoroso di un tuono sveglia bruscamente Montalbano. È il tuono che chiude il temporale, come l'ultimo sparo di una serie di fuochi d'artificio. È troppo tardi per chiamarla notte, ma troppo presto per chiamarlo giorno e l'idea di rimettersi a dormire nella quiete ritornata non è una cattiva idea per Montalbano. Ma come sempre il telefono squilla perché il tempo degli uomini morti ammazzati è un tempo destinato a durare ancora, è un temporale che non finisce mai.
Questa volta si tratta di scoprire chi ha ucciso l'uomo ritrovato in un cantiere, riverso affacciabocconi nel fango, o nel fangue come dice un profetico Catarella, che fa una crasi tra fango e sangue, una storpiatura che trova un riscontro reale nella mescolanza di fango e sangue che ricopre il cadavere come una veste di morte.
L'intelligenza di Montalbano, seppure in questo caso un po' intorpidita dalla preoccupazione per Livia che sembra aver perso l'entusiasmo della vita, è una macchina che si alimenta di intuizioni e di fantasia, che corre più o meno veloce verso la soluzione, che non cede alle mascherate fatte per sviarla, e trova sempre il colpevole.
Meravigliosa l'anteprima del libro scritta da Salvatore Nigro.
“Si sono aperte le cateratte del cielo. I tuoni erompono con fragore. Nel generale ottenebramento, e sotto la pioggia implacabile, tutto si impantana e smotta. Il fango monta e dilaga: è una coltre di spento grigiore sulle lesioni e sulle frane. La brutalità della natura si vendica della politica dei governi corrotti, che non si curano del rispetto geologico; e assicurano appalti e franchigie alle società di comodo e alle mafie degli speculatori. A Vigàta dominano le sfumature opache e le tonalità brune delle ombre che si allungano sull’accavallato disordine dei paesaggi desolati; sui lunari cimiteri di scabre rocce, di cretti smorti, e di relitti metallici che sembrano ossificati. Questa sgangherata sintassi di crepature e derive ha oscuri presagi. E si configura come il rovescio tragico dell’allegra selvatichezza vernacolare di Catarella, che inventa richiami fonici ed equivalenze tra «fango» e «sangue»; e con le confuse lettere del suo alfabeto costruisce topografie che inducono all’errore. Del resto, macchiate di sangue sono le ferite fangose del paesaggio; e l’errore è consustanziale al labirinto illusionistico dentro il quale i clan mafiosi vorrebbero sospingere il commissario Montalbano per fuorviarlo, e convincerlo che il delitto sul quale sta indagando è d’onore e non di mafia. La vicenda ha tratti sfuggenti, persino elusivi. Un giovane ferito a morte ha inforcato una bicicletta e ha pedalato con fatica in quella solitudine di fango. Sua moglie è scomparsa. E con lei un presunto zio, che non ha nome, non ha volto, e non lascia impronte. Ci sono attentati, intimidazioni, delazioni, false confessioni e depistaggi spregevoli. Scorre altro sangue. E c’è una casa dei misteri. Montalbano stenta a farsi un quadro generale della situazione. Conduce le indagini con l’indolenza di chi sbriga una pratica burocratica. È in preda a una morbida malinconia. Pensa con tenerezza e apprensione a Livia lontana, al loro ménage, alla mestizia che asserraglia la donna. Prevale alla fine la saggezza dell’istinto; lo scatto leonino, che gli dà esattezza di visione. Ha nella mente un «romanzo»: il «romanzo» di un segreto, che i clan mafiosi custodiscono e occultano nella lutulenta piramide delle loro criminali macchinazioni. Capisce che deve fare «un buco nella parete della piramide», e decapitarla. Ci riesce con uno «sfunnapedi» o «trainello». Dimostra così la verità degli slarghi narrativi della sua «bella storia», del suo romanzo, della sua «opira di pupi». Intanto la natura si risveglia. Di tra le rughe polverose e le spaccature del fango essiccato, fanno capolino nuovi ciuffi di luminosa erba fresca. Montalbano può correre adesso all’abbraccio con Livia, a Boccadasse.” Salvatore Silvano Nigro
Questa volta si tratta di scoprire chi ha ucciso l'uomo ritrovato in un cantiere, riverso affacciabocconi nel fango, o nel fangue come dice un profetico Catarella, che fa una crasi tra fango e sangue, una storpiatura che trova un riscontro reale nella mescolanza di fango e sangue che ricopre il cadavere come una veste di morte.
L'intelligenza di Montalbano, seppure in questo caso un po' intorpidita dalla preoccupazione per Livia che sembra aver perso l'entusiasmo della vita, è una macchina che si alimenta di intuizioni e di fantasia, che corre più o meno veloce verso la soluzione, che non cede alle mascherate fatte per sviarla, e trova sempre il colpevole.
Meravigliosa l'anteprima del libro scritta da Salvatore Nigro.
“Si sono aperte le cateratte del cielo. I tuoni erompono con fragore. Nel generale ottenebramento, e sotto la pioggia implacabile, tutto si impantana e smotta. Il fango monta e dilaga: è una coltre di spento grigiore sulle lesioni e sulle frane. La brutalità della natura si vendica della politica dei governi corrotti, che non si curano del rispetto geologico; e assicurano appalti e franchigie alle società di comodo e alle mafie degli speculatori. A Vigàta dominano le sfumature opache e le tonalità brune delle ombre che si allungano sull’accavallato disordine dei paesaggi desolati; sui lunari cimiteri di scabre rocce, di cretti smorti, e di relitti metallici che sembrano ossificati. Questa sgangherata sintassi di crepature e derive ha oscuri presagi. E si configura come il rovescio tragico dell’allegra selvatichezza vernacolare di Catarella, che inventa richiami fonici ed equivalenze tra «fango» e «sangue»; e con le confuse lettere del suo alfabeto costruisce topografie che inducono all’errore. Del resto, macchiate di sangue sono le ferite fangose del paesaggio; e l’errore è consustanziale al labirinto illusionistico dentro il quale i clan mafiosi vorrebbero sospingere il commissario Montalbano per fuorviarlo, e convincerlo che il delitto sul quale sta indagando è d’onore e non di mafia. La vicenda ha tratti sfuggenti, persino elusivi. Un giovane ferito a morte ha inforcato una bicicletta e ha pedalato con fatica in quella solitudine di fango. Sua moglie è scomparsa. E con lei un presunto zio, che non ha nome, non ha volto, e non lascia impronte. Ci sono attentati, intimidazioni, delazioni, false confessioni e depistaggi spregevoli. Scorre altro sangue. E c’è una casa dei misteri. Montalbano stenta a farsi un quadro generale della situazione. Conduce le indagini con l’indolenza di chi sbriga una pratica burocratica. È in preda a una morbida malinconia. Pensa con tenerezza e apprensione a Livia lontana, al loro ménage, alla mestizia che asserraglia la donna. Prevale alla fine la saggezza dell’istinto; lo scatto leonino, che gli dà esattezza di visione. Ha nella mente un «romanzo»: il «romanzo» di un segreto, che i clan mafiosi custodiscono e occultano nella lutulenta piramide delle loro criminali macchinazioni. Capisce che deve fare «un buco nella parete della piramide», e decapitarla. Ci riesce con uno «sfunnapedi» o «trainello». Dimostra così la verità degli slarghi narrativi della sua «bella storia», del suo romanzo, della sua «opira di pupi». Intanto la natura si risveglia. Di tra le rughe polverose e le spaccature del fango essiccato, fanno capolino nuovi ciuffi di luminosa erba fresca. Montalbano può correre adesso all’abbraccio con Livia, a Boccadasse.” Salvatore Silvano Nigro
venerdì 19 settembre 2014
Ragione e sentimento di Jane Austen e 1984 di George Orwell
Oggi, parlare di libri mi sembra il modo migliore per cominciare questa mattina fresca e grigiastra e riprendermi dai postumi di un ieri risucchiato dai ritmi frenetici della fiera (del levante) e finito poi in birra. Stamattina poco ha potuto il caffè quindi è probabile che scriverò qualche cavolata, soprattutto dato i libri che ho scelto di mettere sul blog oggi.
Due letture estive, fatte di fila, separate da un secolo di altra letteratura. Due mondi completamente diversi, per cui forse è un azzardo metterle nello stesso post,ma sono troppo pigra per farne due post separati...
Ragione e Sentimento di Jane Austen, fratello maggiore del più famoso Orgoglio e Pregiudizio, mi ha deluso tantissimo. Ma sarà anche perché lo stile di Austen mi è sembrato in questo libro ancora più noioso e ostico che in Orgoglio e Pregiudizio.
Ammetto di averlo comprato essenzialmente per la copertina (l'edizione Bur italiana con le due gerbere arancioni - quella qui accanto è un'edizione inglese - mi ha completamente rapita).
E così l'ho comprato con una certa dose di entusiasmo, lo stesso che si è miserevolmente spento durante la lettura. Non mi è piaciuto proprio niente di questo romanzo. Noioso come l'inverno, noiosi i personaggi, la storia, il finale. Il mio cuore non ha fatto neanche un piccolo salterello dall'emozione ma si è qualche volta stretto di compassione e di pena per le due povere protagoniste. Due sorelle sfigate, ma veramente sfigate.
Le due signorine in questione sono Marianne, fatta di cuore e passione, ed Elinor, rigida come il legno e la ragione. Le due parole del titolo, ragione e sentimento, sono appunto Elinor e Marianne così vicine eppure opposte come una faccia sdoppiata dal riflesso di uno specchio.
Questa divergenza caratteriale le porterà spesso a lamentarsi l'una dell'altra senza che però il comportamento di una si riveli migliore di quello dell'altra. Né il sentimento né la ragione vincono quando si tratta di amore e di vita, di sofferenza e di perdita. Sia Marianne che Elinor sono destinate a subire sconfitte importanti nel corso della storia perché il loro comportamento pende sempre troppo da una parte o dall'altra col risultato di non approdare a nessuna conclusione giusta ed equilibrata.
L'incapacità di contenere il proprio esuberante spirito porterà Marianne a non rendersi conto di quanto sia sbagliata la persona di cui si sta innamorando mentre l'impossibilità a lasciarsi andare di Elinor le impedirà di fare qualsiasi passo verso l'oggetto del suo amore, lasciando che ogni tentativo venga deviato da diverse circostanze.
I piccolissimi cambi di direzione della storia che dovrebbero conferirle un po' di verve sono prevedibili e privi di qualsiasi effetto narrativo, l'eccessiva tendenza all'analisi della Austen rende ogni pagina un carico narrativo difficilissimo da sopportare e la ridondanza di episodi di vita quotidiana è la bacchettata finale a una storia così insopportabilmente settecentesca. Quando ho girato l'ultima pagina ero esasperata.
1984. Lettura difficile anche questa, ma per altri motivi. Scorrevole, ma inquietante, perché reale.
Era una luminosa e fredda giornata d'aprile, e gli orologi battevano tredici colpi. Winston Smith, tentando di evitare le terribili raffiche di vento col mento affondato nel petto, scivolò in fretta dietro le porte di vetro degli Appartamenti Vittoria: non così in fretta, tuttavia, da impedire che una folata di polvere sabbiosa entrasse con lui.
Da questo incipit così fatalmente attraente è partita la mia corsa verso la fine già largamente anticipata dalla trama e dalla follia della storia. Qualcosa sembrava dirmi che non ci sarebbe stata nessuna fine da " e vissero felici e contenti " perché non ci sono che finali folli per storie folli. Questa poi è solo la parvenza di un romanzo, almeno per me, sembra più come quelle opere fuori dal tempo e dallo spazio, troppo aldilà di ogni singola condizione umana per essere un semplice romanzo. È più un'opera destinata a durare per sempre, una specie di manifesto della degenerazione umana in funzione di un'organizzazione sociale, sempre più sistematica e sempre meno individualistica, che col passare del tempo non può che portare all'annullamento di ogni impulso naturale. L'individuo è solo una pedina in un gioco con un solo giocatore, una delle tante cifre di un numero enorme. Potrebbe non esistere per quanto è inutile ma deve esistere perché è parte del gioco, un gioco in cui il ruolo massimo a cui l'individuo può aspirare è quello di rappresentare un problema, un fastidioso inconveniente da eliminare. E quanto può farci male tutto questo non c'è bisogno neanche di dirlo, alla fine non può restare niente di umano e come potrebbe se risulta sempre più difficile fidarsi dei propri pensieri e sempre più facile credere al sistema.
Parola dopo parola ci sembra di essere Winston Smith, di vivere quello che lui vive, o forse di rivivere un sogno, come se quello che leggiamo l'avessimo già visto da qualche parte, perché non è altro che lo spettro della nostra esistenza. Winston è il nostro alter ego in versione futuristica, e non potremmo mai condannarlo per la sua folle scelta alla fine del libro, il rifiuto della sua mente a compiere un ultimo atto di resistenza. E lo capiamo, lo capiamo benissimo.
1984 è da leggere e poi rileggere e ririleggere. Superconsigliatissimo.
Ragione e Sentimento di Jane Austen, fratello maggiore del più famoso Orgoglio e Pregiudizio, mi ha deluso tantissimo. Ma sarà anche perché lo stile di Austen mi è sembrato in questo libro ancora più noioso e ostico che in Orgoglio e Pregiudizio.
Ammetto di averlo comprato essenzialmente per la copertina (l'edizione Bur italiana con le due gerbere arancioni - quella qui accanto è un'edizione inglese - mi ha completamente rapita).
E così l'ho comprato con una certa dose di entusiasmo, lo stesso che si è miserevolmente spento durante la lettura. Non mi è piaciuto proprio niente di questo romanzo. Noioso come l'inverno, noiosi i personaggi, la storia, il finale. Il mio cuore non ha fatto neanche un piccolo salterello dall'emozione ma si è qualche volta stretto di compassione e di pena per le due povere protagoniste. Due sorelle sfigate, ma veramente sfigate.
Le due signorine in questione sono Marianne, fatta di cuore e passione, ed Elinor, rigida come il legno e la ragione. Le due parole del titolo, ragione e sentimento, sono appunto Elinor e Marianne così vicine eppure opposte come una faccia sdoppiata dal riflesso di uno specchio.
Questa divergenza caratteriale le porterà spesso a lamentarsi l'una dell'altra senza che però il comportamento di una si riveli migliore di quello dell'altra. Né il sentimento né la ragione vincono quando si tratta di amore e di vita, di sofferenza e di perdita. Sia Marianne che Elinor sono destinate a subire sconfitte importanti nel corso della storia perché il loro comportamento pende sempre troppo da una parte o dall'altra col risultato di non approdare a nessuna conclusione giusta ed equilibrata.
L'incapacità di contenere il proprio esuberante spirito porterà Marianne a non rendersi conto di quanto sia sbagliata la persona di cui si sta innamorando mentre l'impossibilità a lasciarsi andare di Elinor le impedirà di fare qualsiasi passo verso l'oggetto del suo amore, lasciando che ogni tentativo venga deviato da diverse circostanze.
I piccolissimi cambi di direzione della storia che dovrebbero conferirle un po' di verve sono prevedibili e privi di qualsiasi effetto narrativo, l'eccessiva tendenza all'analisi della Austen rende ogni pagina un carico narrativo difficilissimo da sopportare e la ridondanza di episodi di vita quotidiana è la bacchettata finale a una storia così insopportabilmente settecentesca. Quando ho girato l'ultima pagina ero esasperata.
1984. Lettura difficile anche questa, ma per altri motivi. Scorrevole, ma inquietante, perché reale.
Era una luminosa e fredda giornata d'aprile, e gli orologi battevano tredici colpi. Winston Smith, tentando di evitare le terribili raffiche di vento col mento affondato nel petto, scivolò in fretta dietro le porte di vetro degli Appartamenti Vittoria: non così in fretta, tuttavia, da impedire che una folata di polvere sabbiosa entrasse con lui.
Da questo incipit così fatalmente attraente è partita la mia corsa verso la fine già largamente anticipata dalla trama e dalla follia della storia. Qualcosa sembrava dirmi che non ci sarebbe stata nessuna fine da " e vissero felici e contenti " perché non ci sono che finali folli per storie folli. Questa poi è solo la parvenza di un romanzo, almeno per me, sembra più come quelle opere fuori dal tempo e dallo spazio, troppo aldilà di ogni singola condizione umana per essere un semplice romanzo. È più un'opera destinata a durare per sempre, una specie di manifesto della degenerazione umana in funzione di un'organizzazione sociale, sempre più sistematica e sempre meno individualistica, che col passare del tempo non può che portare all'annullamento di ogni impulso naturale. L'individuo è solo una pedina in un gioco con un solo giocatore, una delle tante cifre di un numero enorme. Potrebbe non esistere per quanto è inutile ma deve esistere perché è parte del gioco, un gioco in cui il ruolo massimo a cui l'individuo può aspirare è quello di rappresentare un problema, un fastidioso inconveniente da eliminare. E quanto può farci male tutto questo non c'è bisogno neanche di dirlo, alla fine non può restare niente di umano e come potrebbe se risulta sempre più difficile fidarsi dei propri pensieri e sempre più facile credere al sistema.
LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L'IGNORANZA È FORZA
Parola dopo parola ci sembra di essere Winston Smith, di vivere quello che lui vive, o forse di rivivere un sogno, come se quello che leggiamo l'avessimo già visto da qualche parte, perché non è altro che lo spettro della nostra esistenza. Winston è il nostro alter ego in versione futuristica, e non potremmo mai condannarlo per la sua folle scelta alla fine del libro, il rifiuto della sua mente a compiere un ultimo atto di resistenza. E lo capiamo, lo capiamo benissimo.
1984 è da leggere e poi rileggere e ririleggere. Superconsigliatissimo.
mercoledì 17 settembre 2014
Cent'anni di solitudine - Gabriel Garcia Marquez
Non posso credere di aver finito di leggere questo libro apparentemente sottile (rispetto a certi mattoni) ma che in realtà è ben più corposo di quanto si possa immaginare nelle sue quasi quattrocento pagine che richiedono infinite attenzione e pazienza. C'ho messo davvero tanto per leggerlo, quasi più tempo di quello che c'è voluto ai Buendia per andare incontro al loro destino, e molte volte sono stata sul punto di rinunciare, colta dalla tentazione irresistibile di dedicarmi ad altro.
Ma tante cose bellissime sono state dette su questo romanzo, che è un capolavoro, che rientra tra i cento libri più importanti di questo mondo. Se si è amanti della letteratura questi libri vanno letti prima o poi, è una verità sottintesa. Così ho fatto un piccolo sforzo per arrivare a leggere quell'ultima pagina perché stava diventando una sfida con me stessa. Non volevo assolutamente fare parte di quelli che hanno lasciato questo libro a metà, non perché non capisca che è la cosa più naturale da fare, ma semplicemente perché volevo avere la forza di capirlo, di trarne un significato da portare con me per sempre.
Una cosa è certa. Non ci sono giudizi così semplici per libri così. Non si può leggere Cent'anni di solitudine senza rimanere incatenati in qualche modo alla storia e incantati dalla scrittura.
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case d'argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.
Da questo incipit si rimane stregati. Sono rimasta stregata anche io e dopo le prime pagine ero entusiasta e non vedevo l'ora che succedesse qualcosa di speciale perché ero sicura che qualcosa dovesse succedere. Con un inizio del genere il resto del libro doveva essere spettacolare.
Poi però mi sono persa, un po' dopo la prima generazione di Buendia. Era l'inevitabile conseguenza di una storia che si ripete sempre uguale a ogni capitolo, che butta nel tritacarne della vita personaggi così simili tra loro che è impossibile distinguerli, visto anche che si chiamano tutti con lo stesso nome. Evidentemente il mondo era così recente che non avevano pensato ad altri nomi propri. Aureliano, José Arcadio, Aureliano José, Amaranta, Rebeca, Ursula, Remedios, Aureliano Secondo, Aureliano Triste, Amaranta Ursula, e via dicendo, sono destinati a ripetere anche nel nome il destino dei loro progenitori.
E la storia non è che la follia collettiva di tutti questi personaggi che non sanno per la maggior parte di chi siano figli, nipoti, zii, cugini ecc e inevitabilmente sviluppano reciproche passioni incestuose che però non si fanno mai realtà ma soltanto anticipazione di un destino più lontano ma comunque ineludibile, scritto nelle carte di Melquiades, e in cui alla fine prenderà forma la paura più grande della prima progenitrice Ursula, e cioè che nasca un discendente con la coda di maiale.
Insomma intricato ma originale.
Comunque adesso posso confessarlo che ho resistito fino all'ultimo soltanto per la scrittura che è veramente la cosa più meravigliosa e magica che abbia avuto mai il piacere di leggere.
È per questo che Cent'anni di solitudine rimarrà sempre un'esperienza profonda e unica.
Alcuni passi:
“Erano le ultime cose che rimanevano di un passato il cui annichilamento non si consumava, perché continuava ad annichilarsi indefinitamente, consumandosi dentro di sé stesso, terminandosi in ogni minuto ma senza terminare di terminarsi mai”.
“La necessità di sentirsi triste si andava trasformando in lei in un vizio a mano a mano che la devastavano gli anni. Si umanizzò nella solitudine”.
"Tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell'istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a cent'anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra."
martedì 16 settembre 2014
La verità sul caso Harry Quebert - Joël Dicker
Non vorrei proprio cominciare il mio primo post con questo libro ma è l'ultimo che ho letto e prima che sparisca dalla mia mente mi sento in dovere di dire qualcosa su questo romanzo assurdo e davvero mal scritto.
Dunque visto che ho già detto che è assurdo e davvero mal scritto, che è l'opinione complessiva che me ne sono fatta, non resta molto da dire se non che questo libro è proprio l'esempio di come una pubblicità smisurata riesca a offuscare il giudizio di un intero popolo di lettori e di come anche una bellissima copertina e una bella edizione siano riuscite a ottundere il mio.
L'idea di un libro meraviglioso serpeggia da un lettore all'altro e con movimenti lenti e la promessa di sette centinaia di pagine piene di colpi di scena ci ipnotizza tantissimo.
Ma la domanda è: è possibile che una tale stregoneria dai piani alti riesca a discendere verso di noi, poveri e ignari lettori? Chi diavolo è che permette la pubblicazione di un romanzo che sembra non essere stato revisionato un numero sufficiente di volte da impedire certi strafalcioni narrativi? Un vero peccato perché ripulita dalla prosa infantile e dai dialoghi sempliciotti la storia di base sarebbe di per sé bellissima, con la giusta dose di intrigo e rimescolamento delle carte per cui arrivi alla fine rendendoti conto che non avevi capito una mazza dall'inizio.
L'inizio. Dov'è l'inizio? Se volessi riportare l'incipit di questo roman, dovrei scrivere pag. 7, pag. 11 o pag. 17?
Estratto da pag. 17.
All'inizio del 2008, all'incirca un anno e mezzo dopo essere diventato, grazie al mio primo romanzo, il nuovo beniamino delle lettere americane, fui colpito da un terribile blocco dello scrittore, una sindrome che sembra piuttosto diffusa tra gli autori baciati da un successo istantaneo e clamoroso.
Eccola qui, neanche tanto nascosta tra le prime righe, la ragione di tutto. Il motivo che spinge Marcus Goldman, il protagonista, (oppure il protagonista è Harry Quebert, oppure è il libro scritto da Harry Quebert oppure quello meraviglioso che alla fine Marcus riesce a scrivere sulla storia di Quebert che ha scritto un libro meraviglioso), insomma il motivo che spinge Marcus Goldman, dicevo, a chiamare il suo unico e vero amico, Harry Quebert, il suo ex professore al college, per dirgli che non riesce più a scrivere nulla. Ed Harry gli propone, ma guarda, di andarlo a trovare ad Aurora, per ritrovare l'ispirazione. E Marcus ci va, giusto pochi mesi prima dei "tragici fatti che mi accingo a raccontare in queste pagine". Brr, che brividi.
Sì perché ad Aurora 33 anni prima del momento in cui si svolgono i fatti (era necessario andare così lontano) una ragazzina di nome Lola era scomparsa nel nulla.
2008: il cadavere di Nola viene ritrovato nel giardino di Harry Quebert perché a un certo punto della sua vita il signor Quebert deve per forza piantare delle ortensie proprio nel punto in cui è stata seppellita Nola.
Altri dettagli agghiaccianti preferisco tralasciarli.
Così Marcus decide di indagare, per scagionare Harry che chiaramente è stato accusato visto che aveva un cadavere in giardino, gironzolando a piede libero nella cittadina, ignaro della doppia faccia dei suoi abitanti, mentre qualcuno semina sul suo cammino messaggi minatori e mentre continua a essere chiamato "signor scrittore" da praticamente tutti. Io avrei già abbandonato Aurora e tutto. Ma chiamarlo Marcus no?
Ogni tanto rispuntano le lettere che Harry e Nola si scrivevano (ah giusto perché Harry cinquantenne e Nola quindicenne si erano innamorati perdutamente l'uno dell'altra) di una banalità amorosa indicibile che Romeo e Giulietta ne verrebbero eclissati.
Mio tesoro,
tu non devi mai morire. Sei un angelo, e gli angeli non muoiono mai.
Come vedi, ti sono sempre vicino. Ti prego, asciugati le lacrime. Non sopporto di vederti triste. Ti bacio, sperando di mitigare la tua pena.
Bla, bla, bla. Sogno di ballare con te.
Mio angelo meraviglioso,
Un giorno tu e io balleremo. Bla bla. E balleremo, balleremo sulla spiaggia.
Amore caro, ballare sulla spiaggia: non penso ad altro. Dimmi che un giorno mi porterai a ballare sulla spiaggia, tu e io.
Vabbé insomma questi vogliono ballare. Organizziamo loro un ballo porca miseria.
Per non parlare dei consigli utilissimi ma davvero davvero utili che Harry dà a Marcus per scrivere un buon libro e che effigiano l'inizio di ogni capitolo, la cui numerazione procede al contrario.
Qualche esempio:
16.
Le origini del male.
Harry, quanto tempo ci vuole per scrivere un libro?
Dipende.
Da cosa?
Da tutto.
Mh, utile, non c'è che dire.
25.
A proposito di Nola.
Insomma Harry come si diventa uno scrittore?
Non dandosi mai per vinti. Sai Marcus la libertà l'aspirazione alla libertà è una guerra in sè. Noi viviamo in una società di impiegatucci rassegnati (ma come ti permetti? non possiamo essere tutti scrittori ricchi sfondati come te, ma tu vedi questo) e bla bla bla.
21.
Della difficoltà dell'amore.
Marcus, sai qual è l'unico modo per misurare quanto ami una persona?
No.
Perderla.
Ma davvero?! Mi sembra di averlo già sentito da qualche parte.
Insomma di cose ne ho già dette troppe anche perché nonostante tutto ognuno è libero di comprare questo libro e di scoprire da sé il colpevole, anche se l'unica cosa che posso dire è che tutti sospetterebbero del povero Luther Caleb, un povero cristo brutto come l'ebola, che ha la sfortuna di essere buono in un mondo di cattivi, pur sembrando cattivo in un mondo di persone che sembrano buone. Insomma tutto è il contrario di tutto in un giallo pieno di consigli per scrittori ma in cui l'unica cosa da consigliare sarebbe quella di non scrivere un libro come questo.
Ah, l'unica cosa che mi è piaciuta è la numerazione dei capitoli. Magari anche il fatto che fino alla fine non sono riuscita a scoprire chi cavolo fosse l'assassino, quindi almeno la sua funzione di giallo l'ha compiuta. Rimane pur sempre un libro leggero da leggere, in queste sere di settembre. Pare che lui stesso fosse cosciente di non star scrivendo un capolavoro.
Avete presente Homeland, la serie tv? Vedi una puntata, poi un’altra, poi cominci a fare delle stupidaggini tipo vederne quattro di fila di notte così il giorno dopo non riesci a lavorare… La mia ambizione era ottenere lo stesso risultato con un libro».
Dunque visto che ho già detto che è assurdo e davvero mal scritto, che è l'opinione complessiva che me ne sono fatta, non resta molto da dire se non che questo libro è proprio l'esempio di come una pubblicità smisurata riesca a offuscare il giudizio di un intero popolo di lettori e di come anche una bellissima copertina e una bella edizione siano riuscite a ottundere il mio.
L'idea di un libro meraviglioso serpeggia da un lettore all'altro e con movimenti lenti e la promessa di sette centinaia di pagine piene di colpi di scena ci ipnotizza tantissimo.
Ma la domanda è: è possibile che una tale stregoneria dai piani alti riesca a discendere verso di noi, poveri e ignari lettori? Chi diavolo è che permette la pubblicazione di un romanzo che sembra non essere stato revisionato un numero sufficiente di volte da impedire certi strafalcioni narrativi? Un vero peccato perché ripulita dalla prosa infantile e dai dialoghi sempliciotti la storia di base sarebbe di per sé bellissima, con la giusta dose di intrigo e rimescolamento delle carte per cui arrivi alla fine rendendoti conto che non avevi capito una mazza dall'inizio.
L'inizio. Dov'è l'inizio? Se volessi riportare l'incipit di questo roman, dovrei scrivere pag. 7, pag. 11 o pag. 17?
Estratto da pag. 17.
All'inizio del 2008, all'incirca un anno e mezzo dopo essere diventato, grazie al mio primo romanzo, il nuovo beniamino delle lettere americane, fui colpito da un terribile blocco dello scrittore, una sindrome che sembra piuttosto diffusa tra gli autori baciati da un successo istantaneo e clamoroso.
Eccola qui, neanche tanto nascosta tra le prime righe, la ragione di tutto. Il motivo che spinge Marcus Goldman, il protagonista, (oppure il protagonista è Harry Quebert, oppure è il libro scritto da Harry Quebert oppure quello meraviglioso che alla fine Marcus riesce a scrivere sulla storia di Quebert che ha scritto un libro meraviglioso), insomma il motivo che spinge Marcus Goldman, dicevo, a chiamare il suo unico e vero amico, Harry Quebert, il suo ex professore al college, per dirgli che non riesce più a scrivere nulla. Ed Harry gli propone, ma guarda, di andarlo a trovare ad Aurora, per ritrovare l'ispirazione. E Marcus ci va, giusto pochi mesi prima dei "tragici fatti che mi accingo a raccontare in queste pagine". Brr, che brividi.
Sì perché ad Aurora 33 anni prima del momento in cui si svolgono i fatti (era necessario andare così lontano) una ragazzina di nome Lola era scomparsa nel nulla.
2008: il cadavere di Nola viene ritrovato nel giardino di Harry Quebert perché a un certo punto della sua vita il signor Quebert deve per forza piantare delle ortensie proprio nel punto in cui è stata seppellita Nola.
Altri dettagli agghiaccianti preferisco tralasciarli.
Così Marcus decide di indagare, per scagionare Harry che chiaramente è stato accusato visto che aveva un cadavere in giardino, gironzolando a piede libero nella cittadina, ignaro della doppia faccia dei suoi abitanti, mentre qualcuno semina sul suo cammino messaggi minatori e mentre continua a essere chiamato "signor scrittore" da praticamente tutti. Io avrei già abbandonato Aurora e tutto. Ma chiamarlo Marcus no?
Ogni tanto rispuntano le lettere che Harry e Nola si scrivevano (ah giusto perché Harry cinquantenne e Nola quindicenne si erano innamorati perdutamente l'uno dell'altra) di una banalità amorosa indicibile che Romeo e Giulietta ne verrebbero eclissati.
Mio tesoro,
tu non devi mai morire. Sei un angelo, e gli angeli non muoiono mai.
Come vedi, ti sono sempre vicino. Ti prego, asciugati le lacrime. Non sopporto di vederti triste. Ti bacio, sperando di mitigare la tua pena.
Bla, bla, bla. Sogno di ballare con te.
Mio angelo meraviglioso,
Un giorno tu e io balleremo. Bla bla. E balleremo, balleremo sulla spiaggia.
Amore caro, ballare sulla spiaggia: non penso ad altro. Dimmi che un giorno mi porterai a ballare sulla spiaggia, tu e io.
Vabbé insomma questi vogliono ballare. Organizziamo loro un ballo porca miseria.
Per non parlare dei consigli utilissimi ma davvero davvero utili che Harry dà a Marcus per scrivere un buon libro e che effigiano l'inizio di ogni capitolo, la cui numerazione procede al contrario.
Qualche esempio:
16.
Le origini del male.
Harry, quanto tempo ci vuole per scrivere un libro?
Dipende.
Da cosa?
Da tutto.
Mh, utile, non c'è che dire.
25.
A proposito di Nola.
Insomma Harry come si diventa uno scrittore?
Non dandosi mai per vinti. Sai Marcus la libertà l'aspirazione alla libertà è una guerra in sè. Noi viviamo in una società di impiegatucci rassegnati (ma come ti permetti? non possiamo essere tutti scrittori ricchi sfondati come te, ma tu vedi questo) e bla bla bla.
21.
Della difficoltà dell'amore.
Marcus, sai qual è l'unico modo per misurare quanto ami una persona?
No.
Perderla.
Ma davvero?! Mi sembra di averlo già sentito da qualche parte.
Insomma di cose ne ho già dette troppe anche perché nonostante tutto ognuno è libero di comprare questo libro e di scoprire da sé il colpevole, anche se l'unica cosa che posso dire è che tutti sospetterebbero del povero Luther Caleb, un povero cristo brutto come l'ebola, che ha la sfortuna di essere buono in un mondo di cattivi, pur sembrando cattivo in un mondo di persone che sembrano buone. Insomma tutto è il contrario di tutto in un giallo pieno di consigli per scrittori ma in cui l'unica cosa da consigliare sarebbe quella di non scrivere un libro come questo.
Ah, l'unica cosa che mi è piaciuta è la numerazione dei capitoli. Magari anche il fatto che fino alla fine non sono riuscita a scoprire chi cavolo fosse l'assassino, quindi almeno la sua funzione di giallo l'ha compiuta. Rimane pur sempre un libro leggero da leggere, in queste sere di settembre. Pare che lui stesso fosse cosciente di non star scrivendo un capolavoro.
Avete presente Homeland, la serie tv? Vedi una puntata, poi un’altra, poi cominci a fare delle stupidaggini tipo vederne quattro di fila di notte così il giorno dopo non riesci a lavorare… La mia ambizione era ottenere lo stesso risultato con un libro».
Iscriviti a:
Post (Atom)