L'esplodere fragoroso di un tuono sveglia bruscamente Montalbano. È il tuono che chiude il temporale, come l'ultimo sparo di una serie di fuochi d'artificio. È troppo tardi per chiamarla notte, ma troppo presto per chiamarlo giorno e l'idea di rimettersi a dormire nella quiete ritornata non è una cattiva idea per Montalbano. Ma come sempre il telefono squilla perché il tempo degli uomini morti ammazzati è un tempo destinato a durare ancora, è un temporale che non finisce mai.
Questa volta si tratta di scoprire chi ha ucciso l'uomo ritrovato in un cantiere, riverso affacciabocconi nel fango, o nel fangue come dice un profetico Catarella, che fa una crasi tra fango e sangue, una storpiatura che trova un riscontro reale nella mescolanza di fango e sangue che ricopre il cadavere come una veste di morte.
L'intelligenza di Montalbano, seppure in questo caso un po' intorpidita dalla preoccupazione per Livia che sembra aver perso l'entusiasmo della vita, è una macchina che si alimenta di intuizioni e di fantasia, che corre più o meno veloce verso la soluzione, che non cede alle mascherate fatte per sviarla, e trova sempre il colpevole.
Meravigliosa l'anteprima del libro scritta da Salvatore Nigro.
“Si sono aperte le cateratte del cielo. I tuoni erompono con fragore. Nel generale ottenebramento, e sotto la pioggia implacabile, tutto si impantana e smotta. Il fango monta e dilaga: è una coltre di spento grigiore sulle lesioni e sulle frane. La brutalità della natura si vendica della politica dei governi corrotti, che non si curano del rispetto geologico; e assicurano appalti e franchigie alle società di comodo e alle mafie degli speculatori. A Vigàta dominano le sfumature opache e le tonalità brune delle ombre che si allungano sull’accavallato disordine dei paesaggi desolati; sui lunari cimiteri di scabre rocce, di cretti smorti, e di relitti metallici che sembrano ossificati. Questa sgangherata sintassi di crepature e derive ha oscuri presagi. E si configura come il rovescio tragico dell’allegra selvatichezza vernacolare di Catarella, che inventa richiami fonici ed equivalenze tra «fango» e «sangue»; e con le confuse lettere del suo alfabeto costruisce topografie che inducono all’errore. Del resto, macchiate di sangue sono le ferite fangose del paesaggio; e l’errore è consustanziale al labirinto illusionistico dentro il quale i clan mafiosi vorrebbero sospingere il commissario Montalbano per fuorviarlo, e convincerlo che il delitto sul quale sta indagando è d’onore e non di mafia. La vicenda ha tratti sfuggenti, persino elusivi. Un giovane ferito a morte ha inforcato una bicicletta e ha pedalato con fatica in quella solitudine di fango. Sua moglie è scomparsa. E con lei un presunto zio, che non ha nome, non ha volto, e non lascia impronte. Ci sono attentati, intimidazioni, delazioni, false confessioni e depistaggi spregevoli. Scorre altro sangue. E c’è una casa dei misteri. Montalbano stenta a farsi un quadro generale della situazione. Conduce le indagini con l’indolenza di chi sbriga una pratica burocratica. È in preda a una morbida malinconia. Pensa con tenerezza e apprensione a Livia lontana, al loro ménage, alla mestizia che asserraglia la donna. Prevale alla fine la saggezza dell’istinto; lo scatto leonino, che gli dà esattezza di visione. Ha nella mente un «romanzo»: il «romanzo» di un segreto, che i clan mafiosi custodiscono e occultano nella lutulenta piramide delle loro criminali macchinazioni. Capisce che deve fare «un buco nella parete della piramide», e decapitarla. Ci riesce con uno «sfunnapedi» o «trainello». Dimostra così la verità degli slarghi narrativi della sua «bella storia», del suo romanzo, della sua «opira di pupi». Intanto la natura si risveglia. Di tra le rughe polverose e le spaccature del fango essiccato, fanno capolino nuovi ciuffi di luminosa erba fresca. Montalbano può correre adesso all’abbraccio con Livia, a Boccadasse.” Salvatore Silvano Nigro
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