Non posso credere di aver finito di leggere questo libro apparentemente sottile (rispetto a certi mattoni) ma che in realtà è ben più corposo di quanto si possa immaginare nelle sue quasi quattrocento pagine che richiedono infinite attenzione e pazienza. C'ho messo davvero tanto per leggerlo, quasi più tempo di quello che c'è voluto ai Buendia per andare incontro al loro destino, e molte volte sono stata sul punto di rinunciare, colta dalla tentazione irresistibile di dedicarmi ad altro.
Ma tante cose bellissime sono state dette su questo romanzo, che è un capolavoro, che rientra tra i cento libri più importanti di questo mondo. Se si è amanti della letteratura questi libri vanno letti prima o poi, è una verità sottintesa. Così ho fatto un piccolo sforzo per arrivare a leggere quell'ultima pagina perché stava diventando una sfida con me stessa. Non volevo assolutamente fare parte di quelli che hanno lasciato questo libro a metà, non perché non capisca che è la cosa più naturale da fare, ma semplicemente perché volevo avere la forza di capirlo, di trarne un significato da portare con me per sempre.
Una cosa è certa. Non ci sono giudizi così semplici per libri così. Non si può leggere Cent'anni di solitudine senza rimanere incatenati in qualche modo alla storia e incantati dalla scrittura.
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case d'argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.
Da questo incipit si rimane stregati. Sono rimasta stregata anche io e dopo le prime pagine ero entusiasta e non vedevo l'ora che succedesse qualcosa di speciale perché ero sicura che qualcosa dovesse succedere. Con un inizio del genere il resto del libro doveva essere spettacolare.
Poi però mi sono persa, un po' dopo la prima generazione di Buendia. Era l'inevitabile conseguenza di una storia che si ripete sempre uguale a ogni capitolo, che butta nel tritacarne della vita personaggi così simili tra loro che è impossibile distinguerli, visto anche che si chiamano tutti con lo stesso nome. Evidentemente il mondo era così recente che non avevano pensato ad altri nomi propri. Aureliano, José Arcadio, Aureliano José, Amaranta, Rebeca, Ursula, Remedios, Aureliano Secondo, Aureliano Triste, Amaranta Ursula, e via dicendo, sono destinati a ripetere anche nel nome il destino dei loro progenitori.
E la storia non è che la follia collettiva di tutti questi personaggi che non sanno per la maggior parte di chi siano figli, nipoti, zii, cugini ecc e inevitabilmente sviluppano reciproche passioni incestuose che però non si fanno mai realtà ma soltanto anticipazione di un destino più lontano ma comunque ineludibile, scritto nelle carte di Melquiades, e in cui alla fine prenderà forma la paura più grande della prima progenitrice Ursula, e cioè che nasca un discendente con la coda di maiale.
Insomma intricato ma originale.
Comunque adesso posso confessarlo che ho resistito fino all'ultimo soltanto per la scrittura che è veramente la cosa più meravigliosa e magica che abbia avuto mai il piacere di leggere.
È per questo che Cent'anni di solitudine rimarrà sempre un'esperienza profonda e unica.
Alcuni passi:
“Erano le ultime cose che rimanevano di un passato il cui annichilamento non si consumava, perché continuava ad annichilarsi indefinitamente, consumandosi dentro di sé stesso, terminandosi in ogni minuto ma senza terminare di terminarsi mai”.
“La necessità di sentirsi triste si andava trasformando in lei in un vizio a mano a mano che la devastavano gli anni. Si umanizzò nella solitudine”.
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